IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 16, ottobre 1999
saggi: la Città, pp. 57-69

Plinio Perilli

La città dei poeti

   Suggestivo quanto patinato, sublime ed usuale insieme, il vero e proprio approccio lirico del 900 italiano rispetto al tema (agli scorci, alla storia, all’Immaginario) della Città, comincia – inevitabilmente – con la sezione presto celebre “Le città del silenzio” nel secondo dannunziano libro delle Laudi, e cioè Elettra (1903). Memorabili, gli incipt o le formule evocanti, le dizioni poematiche di molte tra le nostre più note, e comunque inquietanti, città d’arte e di storia:

O deserta bellezza di Ferrara,

O Pisa, o Pisa, per la fluviale
melodia che fa sì dolce il tuo riposo

Ravenna, glauca notte rutilante d’oro,

Rimini, dove la cesariese
Aquila gli occhi dubbii al Fato avulse

Urbino, in quel palagio che s’addossa
al monte, ove Coletto il Brabanzone

Non alla solitudine scrovegna,
o Padova, in quel bianco april
felice di Giotto che gli spiriti disegna;

T’amo, città di crucci, aspra Pistoia,
pel sangue de’ tuoi Bianchi e de’ tuoi Neri,

O Prato, o Prato, ombra dei di perduti,
chiusa città, forte nella memoria,

Assisi, nella tua pace profonda
l’anima sempre intesa alle sue mire

Orvieto, su i papali bastoni
fondati nel tuo tufo che strapiomba,

Vicenza, Andrea Palladio nelle Terme
e negli Archi di Roma imperiale
apprese la Grandezza. (…).

   Genialità e ridondanza, effusione lirica e suprema aulicità dell’Arte, della Storia, in una felice e immaginifica ridda di rievocazioni, molcezze, stupefazioni, compongono e irraggiano il consueto armamentario sinestetico e poematico del Gabriele Vate “d’Amore e Gloria”. Pescara ormai era poco più che un ricordo consegnato ‒ naturistico e quasi selvaggio – ai suoi primi racconti e romanzi; e la Roma sensualissima e maestosa del Piacere e delle stesse Elegie, rimaneva indissolubilmente infibrata nei dissoluti o libertini festini amorosi e pseudosuperomistici del giovane viveur Andrea Sperelli, quando non nei versi in ogni caso memorabili delle passeggiate passionali e insieme ammirate, rimate e abbracciate estatiche, fra “Villa d’Este” e “Villa Medici”, il “Lago di Nemi” e “Il viadotto” di Ariccia, “Villa Chigi” e “San Pietro”, “Dal Monte Pincio” e “La sera mistica sul Tevere, all’Albero bello”… Ecco il liricizzato e restituito panorama romano gustato appunto dal Pincio:

Sorge lavato il monte, fragrante di fresca verdura,
trepido; e il cielo di maggio ride alla rotta nube.
Pace nell’aria viene dal bel lacrimevole riso,
cui vaga pur d’altezza l’anima nostra attinge,

 cui balenando in cima le cupole attingono e gli alti
alberi che gran serto fanno a’ tuoi colli, o Roma

Mite risplendi, o Roma. Cerulea sotto l’azzurro,
tutta ravvolta in velo tenue d’oro, giaci.

   Viene in mente, in una doverosa comparazione artistica, che tutta o quasi la nostra pittura dell’800 era inesorabilmente ferma – e proprio mentre i cugini “impressionisti” d’oltralpe sperimentavano scorci cittadini e soprattutto umani inusitati e moderni per novità di taglio e scomposizioni cromatiche (da “La Cattedrale” di Claude Monet, del 1894, alla brulicante composizione en plein-air “Le Poulin de la Galatte” di Auguste Renoir, che risale al 1876; dai grandi quadri di Georges Seurat “Bagnanti ad Asnières”, 1884, e “Una domenica d’estate alla Grande Jatte”, 1884-86, che davvero paiono visualizzazioni vivide ed eleganti di certi racconti e scenari squisitamente maupassantiani, sino ai circhi, alle “Folies Bergères”, insomma ai divertimenti parigini, le ballerine piccanti, ma anche ai licenziosi e naufraghi bevitori d’assenzio di Toulouse-Lautrec o Degas… – ferma, dicevamo a paludati e storici quadri di genere, o al massimo alla luce affascinante di certi paesaggisti partenopei, alla sincera “pietas” sociale di tanto tardo-realismo (e pensiamo a una tela pur abile e a suo modo ispirata come “I poveri sui gradini del convento dell’Ara Coeli in Roma”, del 1872, dipinta da Federico Zandomeneghi, o al Telemaco Signorini de “La sala delle agitate a San Bonifacio”, 1865, altro nobile esempio di rappresentazione emarginata e dolentemente sociale). Il tono, lo spirito, la quiete di quei decenni dispersi tra “Macchiaioli” neoluministi e aneddotici sociale (e mentre i vari De Nittis e Boldini, in gran voga, se n’erano anch’essi andati a Parigi risucchiati da un elegante e muliebre vortice borghese o allargamente nobiliare in piena “Belle Epoque”), può essere sintetizzata da certe dolci, affettuose composizioni di Silvestro Lega (“Sotto il pergolato”, 1866), o al massimo dalla dinamica rivendicazione socialista della Grande Proletaria in marcia, cioè del “Quarto Stato”, 1901, di un Pellizza da Volpedo… Le signore con figli e ombrellino di Gaetano Previati incarnavano amabilmente il divisionismo spiritualista su prati verdissimi e quasi irreali, mentre il grande Giovanni Segantini rifugiava il suo talento in alta montagna, magari per dissetarsi e poi davvero dipingere “L’Amore alle fonti della Vita”, 1896.
   I prodromi artistici d’una moderna sensibilità alla metropoli e in fin dei conti la vera inaugurazione del nuovo secolo dobbiamo magari rintracciarli in certe geniali sculture di cera di Medardo Rosso (“Impressione di un bambino davanti alle cucine economiche”, 1892; “Il bookmaker”, 1894), e sicuramente dagli esordi divisionisti di Giacomo Balla (“Lampada ad arco”, 1909), e dello stesso Boccioni (“Stati d’animo, gli addii”, 1911). Il 1909, lo sappiamo è anche e soprattutto l’anno del “Manifesto del futurismo”, pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti, geniale pubblicitario ante litteram, come inserzione a pagamento sul quotidiano parigino “Le Figaro”. L’articolo 11 di questo ironico e amplificato e vorticoso Decreto di Modernismo è, in nuce, l’idea nuova di città e di folla di progresso e della sua costruzione, insomma una reboante e fiera accusa ad ogni passatismo o conservatorismo, financo architettonico, plastico, cromatico, e, va da sé, lirico:

Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi, i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli, i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

   La futurista e rivoluzionaria (ma certo non meno contro-retorica) parola d’ordine, è perciò di distruggere per ricostruire, di bruciare tutto il vecchio – urbano o artistico che fosse ‒ per farlo rinascere con nuova coscienza, nuova prospettiva, nuovo entusiasmo rifondante:

E vengano, dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere estinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate!

   La Città dei Futuristi è, iconologicamente, “La città che sale” di Umberto Boccioni (1910 ca.), prima sua grande opera del nuovo periodo dopo una sorta di felice affrancazione sia dal simbolismo della Secessione, sia dall’espressionismo di Munch (e l’immissione e il debito con la filosofia di Bergson per i concetti di “simultaneità” e “dinamismo”)… Originariamente il quadro s’intitolava “Il Lavoro”, e saranno i francesi, tributandogli grandi lodi, a inventarsi il nuovo titolo “Ville qui monte”. Cosi Zeno Birolli, nel suo magistrale racconto critico su Boccioni, fa raccontare al Nostro lo sforzo e l’idealità della presto celebre tela:

1910. 17 agosto. Il quadro è avanzato parecchio. Una massa di cavalli e di uomini compiono sul selciato sforzi sovrumani. Intanto dallo sfondo si alza e cresce attorno la città nuova, con moderni edifici in costruzione, ciminiere, fumi azzurri, casamenti, fasci di raggi vengono filtrati e si spezzano sulle impalcature, si formano continuamente effetti di iridescenza fra corpi che si compenetrano nelle loro sostanze cromatiche Probabilmente lo intitolerò Il Lavoro, perché è l’espressione di una energia immensa e anonima che può scaturire solo da uno sforzo di migliaia e migliaia di uomini, individualmente protesi con la medesima idea verso il futuro. Sono sempre più convinto che l’artista e il pittore deve essere l’interprete del nostro tempo metallico e dinamico.

   A questo tempo “metallico e dinamico” s’ispirerà con altalenanti ma non sempre artefatti risultati, la futurpoesia di autori come Paolo Buzzi e Luciano Folgore. Buzzi intona quasi un inno modernista ai “Primi lampioni” (“Sfavillano/la luce ignota a’ miei avi”); Folgore allinea titoli come Il canto dei motori, Ponti sull’oceano, e soprattutto Città veloce, che sono già una agguerrita e dinamica dichiarazione di poetica. Una lirica come “Magnesio” intona e irraggia una disperata, espressionista visionarietà del Moderno: “Lineamenti di ferro/contorni a sbarre nette / figurazioni di marmo durissimo /smorfia / della città serrata nei cilindri della tramontana/Sorpresa dei nottambuli coi visi incrostati nel ghiaccio della luce elettrica”… Una Città moderna caotica e irredimibile, da vero inferno dantesco, quale fra non molti anni echeggierà nel Céline del Viaggio al termine della notte, e magari nel Sartre della Nausea.      
   Ma mai come allora l’Europa artistica e culturale per davvero sapeva sentirsi e dirsi europea. E l’Europa di quegli anni si applicava e s’affratellava nei picchi e nei voti lirici del suo Simbolismo, Rilke passava di città in città, sempre in splendido, interiore commercio con Orfeo… La Firenze del suo diario giovanile, poi Roma con le sue mitiche e lussureggianti fontane, o la Parigi del suo essenziale incontro con lo scultore Rodin, e dell’aspro e tormentato arroccamento svelato e diagnosticato nei Quaderni di Malte Lauridis Brigge (1910) Quando la belga Émile Verhaeren, in un libro come Le città tentacolari (1896), insieme affabulato ma anche atterrito dall’inarrestabile ingranaggio della civiltà industriale, già lasciava profetizzare, di li a trent’anni (1925), non solo l’avvento del cinema, ma precisamente una pellicola cosi potente e inquieta – e formalmente perfetta – come Metropolis di Fritz Lang, capolavoro tedesco del muto, e derivata dal romanzo Eva futura di Villiers de L’Isle-Adam, storia di una città futura in cui la macchina viene deificata, elevata a totem stesso idolatrato. Quanto diverso, quell’occhio astrattamente tardoespressionista, dall’inesorabile e formicolante reportage realista del King Vidor de La folla (1928), e perfino dalle esilaranti e sempre statunitensi impresse e gli equilibrismi da grattacielo di Harold Lloyd in Preferisco l’ascensore (1923)!…      
   “Ho abbastanza visto” – aveva scritto l’abbagliante Rimbaud delle Illuminazioni – “Ho incontrato in ovunque la visione. Ho abbastanza avuto. Frastuono di città, la sera, e sotto il sole, e sempre. Ho abbastanza conosciuto. Le fermate della vita. – O Frastuoni e Visioni! Parto per affetti e rumori nuovi!”… Il non meno errabondo, errante, erotico /eretico Dino Campana, pochi decenni dopo, tenta di salvare il simbolismo auratico ed autoctono d’un “Crepuscolo mediterraneo” impazzito di luce e saturo di mito, fra le sue inenarrabili “piazze felici”:

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vede le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si cova?

   Del resto, la lirica prosa d’apertura dei Canti orfici, “La notte”, applica e ambienta fabulosamente proprio quell’intuizione precedente, quella delirante professione e contemplazione del “muto” che “si cova”: “Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo”… Dove ovviamente la collocazione geografica o la precisione della citazione (urbanistica, architettonica et similia), non ha alcuna importanza “immaginifica”. Molto più intrigante e rivelatrice la successiva osservazione e diremmo diagnosi dello stesso Campana riguardo agli scenari europei tutti della cosiddetta e allora in voga arte crepuscolare, con cui in piena reazione antidannunziana, bene o male si apre il nostro secolo, anche poetico:

L’arte crepuscolare (era già l’ora che volge il desio) in cui tutto si affaccia e si confonde, e questo stadio prolungato nel giorno aiutato dal vin de la paresse che cola dai cieli meridionali e nella gran luce tutto è evanescente e tutto naufraga, si che noi nel più semplice suono, nella più semplice armonia possiamo udire le risonanze del tutto come nelle sere delle stridenti grandi città in cui lo stridore diventa dolce, (diviene musique énervante et caline semblable au cri loin de l’humaine dou leur) perché nella voce dell’elemento noi udiamo tutto.

   Grandi città in cui lo stridore diventa dolce… Cosi, dopo le città dei Simbolisti e quelle dei Futuristi – spesso anzi in piacevole e inestricabile contemporanea – avemmo le città dei Crepuscolari: la Roma di Corazzini e di Govoni; la Torino di Gozzano; la Cesena di Moretti (o meglio, Cesenatico)… Ma in fondo – e paradossalmente – le vere e prime città del ‘900 italiano, sono e furono Alessandra d’Egitto, sia per Ungaretti che per Marinetti: e poi, naturalmente, Parigi… Il che valse per entrambi; e per autori e talenti come Soffici, Modigliani, Apollinaire, etc. Cosi, la vera città di Campana fu la mitica, e forse inventata Montevideo (“Noi lasciammo la città equatorale / Verso l’inquieto mare notturno”), molto, ma molto di più di Firenze, Faenza o Genova, che ricorrono in tanti suoi versi celebri. E tramontata la generica e ormai démodé conquista di Roma quale capitale letteraria e per di più mondana (pensiamo ai romanzi non solo di D’Annunzio, ma anche della Serao e poi della Deledda – mentre il giovane Verga, al contrario, aveva elegantemente conquistato Milano), la vera Città Nuova del ‘900 non è forse neanche più la Parigi capitale dell’Arte, ma la Vienna di Freud, padre della Psicoanalisi; per non parlare dell’inquieta Praga di Kafka… Certo è che l’Arte Visiva, molto presto, si impadronì delle Città della Poesia, che forse restano meglio connotate, in quei pieni anni ’20 e ’30, proprio dalla fantasia e dai colori – dalla luce – di quei pittori: la Torino di Casorati e Carlo Levi; la Roma di Scipione e Mafai; la Milano di Sironi, coi “paesaggi urbani”, le sue periferie stravolte e assolute. E finalmente, la Ferrara della Metafisica (De Chirico, Carrà, De Pisis): piena di Muse inquietanti e di piazze tagliate dalle lunghe, fascinose ombre di luci meridiane – le dechirichiane, per l’appunto, Piazze d’Italia, divinate forse da quel brano di Campana… E quell’inquietudine, metafisica ed esistenziale, contempla e prepara il “Ritorno all’ordine”. Ancora oggi lo si sente, come una lieve brezza, metropolitana, dolentemente affettuosa, e pigramente inconsapevole, nel fervore melanconico di tante pagine di Cardarelli (“Io venni a Roma con vento o, per meglio dire, con la nostalgia dei treni che andavano verso la Città Eterna o ne portavano l’odore”, da Villa Tarantola; ma riguarda tutte le città schizzate o acquerellate nei versi o nelle prose irripetibili de Il sole a picco); per non dire dell’ancor giovane ed estrosissimo, amabile e impertinente Bruno Barilli di Delirama:

Roma in questi giorni è inondata di musica. I vetri delle case tremano, le muraglie vibrano. La polifonia straripando dai Conservatori ha sepolto bruscamente la voce delle fontane. Ora sulle piazze stagnano i laghi illividiti dell’armonia, laghi pieni d’un cielo indifferente, mentre le strade sono ancora canali schiumosi e violenti.

   Datato 1924, si badi bene, questo brano già coniuga con Roma il di li a poco raviano aggettivo “indifferente”… Tant’è, che quell’apparente e fulgida quiete cognitiva, oltreché espressiva, quel solare e a tratti sublime Sentimento del Tempo, insomma quell’immoto e altissimo Cielo sulle città (e cioè, fra nuova, ungarettiana cadenza ermetica, e cardarelliana prosodia lirica di classico respiro), covasse in realtà aspri e desolati drammi interiori, prima ancora che storici, lo rivelano appieno certi rari versi di Mario Sironi datati 1930 circa, dal titolo nero e disperante, “Maledizione”:

E la luce si spegne
l’anima barcolla
sotto i colpi duri
m’aggiro per la vita
smarrito e triste
visioni
su laghi di smeraldi
immani bastioni
di rocce a precipizio
tavole di rupi
sui bastioni neri
i ciclopi erculei
gettano ponti di
travi e di ferro
Immane cupa
voragine dove
l’urlo sprofonda e si
perde rimbalzando

   Come un lancinante incubo, esistenziale ed ispirativo, che in poesia – segretamente ‒ tradisce il pittore, arcaizzante e moderno insieme, d’una storicizzata ma quasi antica periferia industriale, il leader di “Novecento”, perfino teorico e onorata stella artistica del regime fascista. Ma quell’ “immane cupa / voragine”, presto avrebbe in realtà inghiottito progetti, estetiche, idilli lirici e ricerche plastiche. La città totalmente poetica, drammaticamente nuova di quegli anni a venire, non era certo più la boccioniana Città che sale o quella futurista sognata e disegnata da Sant’Elia, ma la Guernica (1937) bombardata e distrutta dai tedeschi filofranchisti e immortalata da Picasso nella celebre tela ed egualmente farà in scultura Ossip Zadkine, con l’espressionismo annichilito del Monumento commemorativo della distruzione di Rotterdam (1951-53).   
   Cosi, tutte o quasi le città “poetiche” e cantate in poesia del nostro primo ‘900, si ritrovarono – fra le ferite profonde e spesso irrimarginabili dei due conflitti mondiali – aulicamente consegnate alle evocazioni umane, scenografiche, psicologiche, di un’iridescente ma già datata scelta antologica: la Trieste di Saba, Giotti e Svevo; la Roma di Onofri; la Firenze di Palazzeschi, ma anche delle Occasioni montaliane, di Betocchi e Bilenchi, degli ermetici più giovani (Luzi, Bigongiari, Parronchi), e degli umori popolareggianti di Pratoli; la decantata Venezia di Valeri; la turgida Milano di Delio Tessa, e naturalmente di Rebora… Segnalerà P.V. Mengaldo proprio riguardo all’autore dei Frammenti lirici e dei Canti anonimi: “Centrale in Rebora è soprattutto il tema della città moderna (eventualmente dialettizzato con quello della campagna), non riprodotto nei suoi aspetti esteriori e folclorici come nei futuristi, ma veramente vissuto nel suo ritmo interno, sicché l’esasperazione accumulatoria e percussiva dello stile ne è, meglio che l’espressione, l’adeguata metafora formale”…  
   La Città dei poeti, vale nel ‘900 – lo ribadiamo – proprio come compiuta, sintomatica “metafora formale”. Cosi fu per la Tarquinia (e poi la Roma) di Cardarelli, per la Firenze, di Campana e la Milano “resistenziale” di Quasimodo o Gatto; ancora, per la Roma occupata di Ungaretti, o la Firenze accesamente, iridescentemente “ermetica” del Montale anni 30, quello altisonante e magico dei “Tempi di Bellosguardo”:

Oh come là nella corusca
distesa che s’inarca verso i colli,
il brusio della sera s’assottiglia
e gli alberi discorrono col trito
mormorio della rena; come limpida
s’inalvea là in decoro
di colonne e di salci ai lati e grandi salti
di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme
che traboccano,
questa vita di tutti non più posseduta
del nostro respiro;
e come si ricrea una luce di zàffiro
per gli uomini
che vivono laggiù (…)

   Metafora formale, certo: ma, vorremmo aggiungere, anche metafora etica. Penso a certe prose di Prezzolini su Perugia, Norimberga e Firenze (Uomini 22 e città); o alla Città dell’Anima (un testo del ’23), quale Vigolo intese Roma, fino a narrarne ed invocarne “L’alleluia della Cupola”. Rileggo anche certi interventi del povero Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, sul razionalismo nell’architettura e sull’architettura nuova, in pieni anni ’20: “Ma il punto più importante da osservare oggi è questo: che in una civiltà a rapido sviluppo, in cui il ‘panorama’ urbano deve essere molto ‘elastico’ non può nascere una grande arte architettonica, perché è più difficile pensare edifizi fatti per l”eternità’. In America si calcola che un grattacielo debba durare non più di venticinque anni, perché si suppone che in venticinque anni l’intera città ‘possa’ mutare fisionomia, ecc.”.      
   Naturalmente i tempi sono molto più allungati – però il nostro secolo ha vissuto e vive questo continuo depauperamente e insieme quest’accellerazione effimera architettonico-progettuale. Come potrebbe non risentirne il poeta, la poesia? “Il tempo e il paesaggio” scriveva Betocchi nel 1950, partendo da una suggestione leopardiana “formano una unità che è simigliante a quella dell’uomo, e, se vogliamo coglierne il valore in qualche modo fisico, possiamo dire che è come la sua eco”… Italo Calvino scrisse un racconto in cui il protagonista cambiava psicologia cambiando città: a seconda se con pianta quadrata o circolare, mutava dunque il medesimo modo di ragionare, di comporre pensieri. Forse è troppo, pensarlo anche per la poesia, per il poeta nella città?… I tetti rossi della Firenze di Betocchi, i sordidi vicoli della Napoli di Domenico Rea o della Ortese, i pigri e sornioni Racconti romani di Moravia, la Ferrara ebraica di Bassani, la Torino di Pavese, la Milano di Ottieri, la Parma di Bertolucci, la Genova di Caproni – e l’elenco è lunghissimo – non configurano forse, inopinatamente, infinite variazioni interiori sul tema della metropoli, comunque della città, della vivibilità urbana della poesia del nostro sofferto ultimo secolo? C’è materia a sufficienza per una accanita scrittura psicoanalitica, oltre che per le consuete analisi letterarie. Ricordo molti passaggi della Mitobiografia di Ernest Bernhard, luminare junghiano, in merito agli incubi o alle apparizioni psichiche delle diverse città: la Berlino prima della sua emigrazione, il Cottolengo torinese come “forma dell’Ombra”, la Roma occupata dai tedeschi in cui restò nascosto nel ’44, per salvarsi dai rastrellamenti. Gli stessi mesi – egualmente dolorosi per tutti – in cui Ungaretti, nella capitale viveva e poi scrisse la lirica abbracciante stagione del suo Dolore:

Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d’agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterefatte;
Che di male l’attesa senza requie,
Il peggiore dei mali,
Che l’attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tante incerte;

   Ecco come il Novecento partito sognando e progettando una mirifica e inaudita Città che sale, ha bombardato a tappeto le sue metropoli, fino a ridurne le case a ‘tane incerte”, o macerie della poesia fuggita e sfollata “per le strade esterrefatte”. La modernità, dunque, non è un rimedio, se non si muta e si fortifica in impegno etico, promessa e fortilizio di civiltà. Travis Bickle, il cinematografico Taxi driver, già reduce dal Vietnam, che nella città violenta vuol farsi giustizia da sé – col volto e il piglio di Robert De Niro, e New York splendidamente fotografata e girata da Martin Scorsese – non incarna minor lucido dramma del profetante poeta Rimbaud che un buon secolo prima, nelle sapienzali e allucinate prose delle Illuminations, spara al suo tempo e al conformismo della Visione con le sole armi delle parole, d’un Incoscio liberato a mostrarsi, e a ripudiare sciocche dimore in rima o le goffe strade del perbenismo e del passatismo: “Io sono un effimero e non troppo scontento cittadino d’una metropoli ritenuta moderna perché ogni gusto già divulgato è stato esculso sia nell’arredamento e nelle facciate delle case che nella pianta della città. Qui non potreste segnalare la traccia di nessun residuo di superstizione. La morale e la lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente! (…) La morte senza lacrime, nostra attiva figlia e ancella, un Amore disperato, e un grazioso Delitto che piagnucola nel fango della strada”. Dissolvenza neomillenaristica incrociata… Stop… Buona la prima!