IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 16, ottobre 1999
saggi: la Città, pp. 45-56
Vincenzo Bagnoli
Forme/Città
La città è assoluta protagonista della letteratura moderna, per qualunque soglia cronologica si preferisca optare: la città barocca di Quevedo, quella sette-ottocentesca dei Bildungsroman, quella infine simbolista e delle avanguardie sono infatti tali non semplicemente costituendo una “ambientazione privilegiata”, ma proponendosi come una sorta di “allegoria totale” della loro Zeit. Rispetto infatti alla città del medioevo, che ancora contemplava un “fuori” e si definiva quindi nel confronto col suo contrario, quella moderna diventa forma complessiva dell’esperienza; ciò che non è città, comunque lo si voglia definire, è viceversa divenuto ora una categoria astratta, quasi incomprensibile in sé. Viaggiando alle alte velocità, lo nota Virilio, il mondo esterno diviene indifferente, perché con esso è impossibile interagire (“la velocità del trasporto moltiplica l’assenza”): la sensazione è quella di non aver mai lasciato veramente la città, il paesaggio riducendosi a finzione, a fantasmagoria del finestrino. Lo “spazio in mezzo” tra città e città viene allora neutralizzato, perde senso e si assimila a una periferia stiracchiata.
Dalla città, dal suo saper integrare ciò che è diverso sorge anzi, secondo l’Aragon del Paysan de Paris, una stessa “metafisica dei luoghi” che può trasformare la metropoli nel suo esatto contrario: la città estende cosi il suo dominio anche su ciò che non le apparterrebbe, anche sul suo opposto, proprio come una rete si sostanzia di vuoti e pieni. Non è un caso, del resto, che la “città virtuale” sia divenuta metafora eccellente per le comunità trasversali del WorldWideWeb; e sarebbe sbagliato credere che il mezzo tecnico abbia avuto una funzione modellizzante, giacché esso non ha fatto che recepire, come sempre accade, un bisogno diffuso, vale a dire la tendenza della città stessa a diventare forma estesa. Se dunque mezzi di comunicazione dalla forma di “rete” come quelli elettronici (Internet, ma già la televisione e prima ancora – a loro modo – radio e telegrafo) si affermano è perché è già diffusa la percezione (e l’abitudine) secondo la quale tutta la forma del nostro vivere è un’ininterrotta città-ragnatela che abbraccia e comprende tutto: tutto ciò che e “civile” e “urbano” (e “umano”, dall’epoca della Civilization), ma anche ciò che non lo è… Già Larbaud, geniale traduttore di Joyce ma a propria volta acuto “scopritore di forme”, aveva osservato nel suo Barnabooth, grande parodia tanto del mito della frontiera e dell’exploitation quanto della volgarità turistica, come l’Europa, unica grande città che sazia ogni appetito, non fosse che l’anticamera dell’Inferno, mentre il resto del mondo, la campagna aperta, il luogo selvaggio della sovversione e del naturale, si riducesse al luogo del non-umano. Il pensiero naturalmente va alle sovversioni dell’assetto della comunità/città prodotte dalla periferia-ghetto e dalla guerra etnica.
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Quando, durante uno di questi viaggi, per non prestare attenzione alla “fantasmagorica” si preferisce leggere, l’arrivo in città porta generalmente con sé una specie di sollievo. La città dei libri è inquietante: parla, e parlando dice il male, la cattiveria resa trasparente dietro le forme. La città vera ormai addensata oltre il finestrino è invece stordita, innocua, opaca; anche i suoi mucchi di rifiuti e il cemento tranquillizzano, con l’aria delle cose di ogni giorno. Il senso della distanza e del tornare, per il lettore, sta tutto nel ricondursi alla neutralità del quotidiano Orbis pictus della città/rete dalla sua inquieta “descrizione”, che è racconto e insieme “cartografia” alla maniera delle Chartes moralisées.
Questa città invasiva, la cui artificialità tende a ricoprire il mondo, finisce dunque con l’inchiodare l’osservatore nel non-uso dell’ambiente. Lo percepiva già il romanticismo (la cui passione per l’Unheimlich è condivisa, come avverte Jameson, da tutte le estetiche della modernità e della “postmodernità”), per il quale l’imperativo etico si risolve in imperativo estetico, nelle forme di un virtuosismo all’infinito (basti pensare nell’omonimo idillio leopardiano al ruolo del “fingersi”), e l’artificiale, di cui il lato tecnologico non costituisce altro che un’iperbole (come nel Sandmann hoffmanniano), diviene l’elemento di fascinazione. Broch ravvisa nel Kitsch tale fenomeno di riduzione, all’interno del quale la perdita d’una qualità ha modificato i modi della fruizione estetica nel senso d’una loro meccanicizzazione, pure esso riguarda, secondo il Kandinskij dello Spirituale nell’arte, anche l’arte colta quando è posta nel museo, allorché l’opera viene guardata con occhi freddi, come si osserverebbe la bravura di un acrobata: e riguarda infine, secondo Benjamin, tutta l’esperienza, nella cosiddetta “ricezione tattica” regolata dall’abitudine e dalla “distrazione”.
Il dialogo tra la “forma della città” e la conseguente “forma di una stile” è stato il principale oggetto dell’interesse di Benjamin, in quel brillantissimo percorso che ha posto in parallelo intenzione urbanistica e “cronaca” delle trasformazioni in atto filtrata dall’arte, raggiungendo alcune delle più chiare consapevolezze della modernità occidentale. Quale libertà concede questa “forma delle forme”, questa totalizzazione dell’esperienza? Come Benjamin attualizzava il Baudelaire della Parigi capitale del XIX secolo per parlare della città surrealista, cosi servirebbe tentare di sviluppare questo percorso, e riportare un’analoga inquietudine nei sedimenti ottici che affollano la nostra esperienza. In tempi recenti il situazionismo debordiano ha proposto, per l’artista ma anche per il soggetto dell’esperienza in generale, la deriva, il détournement quale attualizzazione delle strategie surrealiste: in questo progetto, tuttavia, il prefisso sembra rimandare ancora a un “altrove nostalgico”, un luogo o un uso “naturale” dello spazio. Non serve più, mi pare, lamentarsi platonicamente che una “seconda natura”, artificiale e industriale, si è sovrapposta alla rerum natura e ha rapidamente acquistato autonomia da essa falsificando il rapporto fra l’occhio e il mondo. Il velo del significato comunque si frappone e fluttua tra la cosa e l’immagine sociale: ogni assalto a quest’ordine in nome della Verità rischierebbe di risolversi in un inutile quanto pericoloso attacco alla cultura/civiltà. L’antropologia infatti ha bene dimostrato la dipendenza dell’essere umano dai modelli culturali, quei “meccanismi di controllo extragenetici ed extracorporei”, elaborati all’interno dell’universo del simbolico e costituenti la summa delle sue esperienze, dai quali dipende la stessa forma di queste. Si può concludere allora con Clifford Geertz che “la cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana, ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa”. Queste considerazioni paiono dunque lasciare poco spazio ad un mito come quello del buon selvaggio o di età auree: se esistessero davvero, gli uomini senza cultura “sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun intelletto: casi mentali disperati”.
E stato il Calvino polemico con Eco e Vittorini, a mio avviso, a fare centro riconoscendo in un celebre saggio degli anni Sessanta l’inevitabilità del “labirinto gnoseologico culturale” (o piuttosto dei labirinti: sempre immagini di città, come traspare dai riferimenti a Joyce, Musil, Queneau, Borges, Gadda) e tuttavia la legittima necessità della “sfida” che a essi deve essere portata, nei termini non di una eversione (poiché ogni uscita “non sarà che il passaggio da un labirinto all’altro”), ma di una volontà di non rassegnarsi (come per certi versi vuole poi il “pensiero debole”) al loro fascino e di una conseguente loro continua modificazione. Liberatosi dalle nostalgie, allo scrittore resta questa sola forma totalizzante dell’esperienza, ed egli deve calarsi nel tessuto vivo delle stereotipie da essa attivate: alla maniera appunto di Baudelaire, di Larbaud e del Borges poeta.
È poi uno scrittore come Don DeLillo a suggerire, Rumore bianco, una nuova forma di “aura” dell’opera d’arte, una volta dissolta quella garantita dalla sua unicità. Rinunciando a rimpiangere l’antica auctoritas della distanza e dell’ hic et nunc, tale aura può viceversa scaturire proprio dalla ripetizione e dalla serialità, non nei modi dell’isteria del sublime e hitech, del pathos del simulacro, del disorientamento estatico delle superfici, ma in un diverso ethos che metta in relazione superficie e profondità, dotando questa forma/città (chiamiamola ancora cosi), sostanziata dalla ricezione nella distrazione, della capacità di produrre senso: del resto, lo stesso Benjamin intravedeva nelle moderne forme d’arte una possibile istanza liberatoria, accanto all’autoritarismo del consumo della propaganda. Riflettendo sull’esperienza dell’opera d’arte, anche Gadamer ha poi osservato come le forme artistiche che per “l’arte dell’Erlebnis rappresenterebbero casi periferici vengono a collocarsi al centro: e sono quelle forme d’arte il cui contenuto proprio rimanda, al di là di esse, alla totalità di un contesto da loro e per loro determinato”.
Come si può notare, a sostanziare l’opera letteraria in quest’ottica è un cambiamento di orizzonte, non la sua perdita: pur essendo venuti a mancare i grandi sistemi di riferimento (i “metaracconti”), e anzi proprio perché tali gerarchie verticali risultano scardinate, diventa al contrario determinante davvero la capacità del racconto di farsi discorso, di prospettarsi entro coordinate più vaste e “orizzontali” (intendendo con ciò tanto l’amplitudine quanto la contiguità metonimica), alla maniera d’una Weltliteratur alla Goethe e all’incontro per di più tra arte e scienza. Non è questo un afflato universalistico illuminista; ben di più, è una tensione verso una “ricostruzione e integrazione” del senso in panorami diversi, più vasti in tutti i sensi, in un processo di globalizzazione e di “espansione delle periferie” (ricorre ancora la forma/città) qual’è indicato da Edouard Glissant. Già una concezione positiva (e non positivista) del secolo scorso portava l’attenzione sul lato ambientale, si potrebbe dire geografico, del rapporto etica/estetica: la bellezza di forme “insignificanti” fondandosi sulla combinazione in serie come dialogo tra particolare e generale. La perdita di senso dei frammenti di esperienza che il nostro privato sperimenta trova dunque una via d’uscita attraverso il collettivo: non più riduzione al tipo unico, ma determinazione al plurale dei “luoghi comuni”, nel senso inteso da Rocco Ronchi.
Non nell’altrove esotico, ma nell’uguale, all’interno di questa forma/città appunto inclusiva – si trova l’altro, là dove è annidato l’inconscio della città intesa, con Benjamin, come “dimora onirica del collettivo”. Queste stereotipie allora, quali sono descritte dall’Amour fou di Breton, ma anche dai blow-up alla Rauschenberg di Liz Taylor distribuiti da Ballard su ossessivi cartelloni nei labirinti delle periferie in The Atrocity Exhibition, sono dunque leggi del desiderio che continuano nelle linee di sviluppo della città, nelle forme seriali e ripetitive (geometrizzabili come frattali di Mandelbrot), e come tali appunto sede di una sorta di “marché aux puces” dei “sedimenti ottici”.
Sono quindi non solo ripetizioni, ma al tempo stesso – attraverso la variabilità delle strutture in esse e da esse delineate, come le gocce d’acqua tutte uguali possono articolarsi di cristalli tutti diversi e dare le infinite forme delle nuvole – anche operatrici di caoticità (sempre per Breton), secondo una “strategia del disordine” in cui la stereotipia si rivela quindi un ordine più complesso, in cui ogni altrove ha una relazione con il qui e in cui la “forma di una città” è immediatamente analoga al testo che la descrive. La voce che articola questa sintassi è l’epifania del diverso: ma solo nella forma di un confronto che è dialogo per adjectum si ha la “comunicazione profonda”, sull’asse del “desiderio”. Come nella scrittura è la “sintassi della profondità” a possedere le matrici del vero ordine e a garantirne la trasparenza, cosi nella città esse appartengono a quei punti in cui la tela urbanistica si lacera al proprio interno e mostra quello che c’è oltre la superficie, rivelando cosi nella contiguità, e non nell’esotico/esoterico, la profondità. Tale è la “sferzata” che John Brunner fa subire al protagonista (un urbanista australiano) di The Squares of the City.
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Antonio Porta è fra gli scrittori italiani che sembrano meglio orientarsi in questo difficile sistema di riferimenti, da un lato entrando in sintonia con le correnti provenienti dall’Europa e dal mondo, dall’altro parendo prestare orecchio a certi toni di Calvino (come si avrà modo di vedere meglio), ma soprattutto declinando queste e le proprie personali prospettive in maniere che riescono a stare sul filo rischioso della sua e nostra contemporaneità, a guardare insomma in avanti, a ciò che deve avvenire. Cosi, all’interno di Week-end, la silloge Utopia del nomade del 1972 sembra far eco alle ricerche situazioniste di Debord da poco introdotte; in realtà essa è chiaramente parte d’un percorso intrapreso già dall’epoca di I rapporti, dove infatti si tentavano le coordinate, geografiche (Meridiani e paralleli) o dei rapporti umani, e proseguito poi con II passeggero.
All’interno di questo itinerario particolarmente rilevante è a mio giudizio, il sesto dei Movimenti, nel quale ci è presentata una forma/città del testo che è anche forma del linguaggio/desiderio: “la città si chiama Immagine non ha limite né centri può specchiarsi in sé stessa / luogo dove incontrarsi… “. Quella di Porta, avverte Niva Lorenzini, è “parola-sguardo” che proprio in quanto tale sa essere quindi parola-luogo: parola che cerca di essere un terreno d’incontro, in cui il nomade può disegnare (lo dice lo stesso poeta) il proprio volto come fosse quello di un altro. Questi versi danno dunque il senso a quella linea che arriverà fino a Passi paesaggi, segnando l’urgenza di un ritorno proprio all’esigenza di comunicare, dove il termine, scevro dalle “ansie retoriche” di influenza mediatica, rimanda piuttosto alla volontà di costruire spazio (o luogo) comune. Porta ha esplicitamente indicato la propria opzione per la Pars costruens dell’avanguardia, sottolineando cosi in maniera forte la misura del proprio impegno (nel senso di “fiducia nel potere determinante della cultura”), in una stagione che è pure quella del pensiero debole. Non crede di poter sfuggire alla difficoltà, a seguito della scoperta della complessità e della molteplicità delle forme: matura però la consapevolezza che sia questa stessa scoperta a esigere una pervicace assunzione di responsabilità: “…si manifesta / il pensiero linguaggio che va preso alla lettera / sistema di piani e curve per scendere e salire / dietro a donne dietro a figli e animali”. L’atteggiamento di dubbio non si risolve nel disorientamento, ed essendo sistematico coincide anzi con l’esatto opposto, col tentativo insomma, per quanto difficile comunque fattivo e concreto, di orientarsi.
La città vuole tranquillizzare con un’aria tutto sommato innocua, vuole stordirci col monotono ronfare della storia che si ripete sempre uguale: a questo punto interviene una flânerie accidiosa e riattiva la memoria nello sguardo, come tecnica combinatoria, ricreando il paesaggio dalla sua assenza, a partire dai relitti empirici, mnemonici, onirici, con la piena consapevolezza della propria arbitrarietà. Con occhio clinico scopre quanto è sepolto sotto l’asfalto, dietro l’architettura, il vetro e il cemento; per disilludere la rasserenata facciata di una immagine la cui superficie liscia non concede appigli, evitando la fascinazione autoapologetica di una “serena alienazione”, colloca il proprio punto di vista in basso, come diceva Maturin, “a trenta piedi sotto il livello adatto per un miracolo”. L’IO è presente, ma in secondo piano, ritirato sul margine, e in questo distanziamento, attraverso l’obliquitas, si gioca la possibilità di un recupero della piena facoltà critica all’interno delle immagini.
La consapevolezza che nella scrittura sull’immagine dell’autore in termini assoluti (sia del sé sia dell’altro) deve prevalere la dinamica delle relazioni, quindi la visione del mondo, spinge a preferire la problematicità innescata dal gioco prospettico di sguardi differenti. Di qui deriva la estrema attenzione alla inquadratura, allo sguardo che si può ravvisare in Porta: in molti casi questo procedimento ha connotati decisamente materialistici, operando come tecnica di disincanto rispetto all’affabulazione iconica. Se lo spettacolo immobilizza dunque nel non-uso, e l’immagine si precipita e si schiaccia sugli occhi facendo schermo opaco, fissando ipnoticamente nell’illusione di vedere, l’obliquitas si propone come mise en abime della menzogna. È questa la “coscienza dello sguardo”, quella necessaria prospettiva, quel ritirarsi della voce in secondo piano che non confonde l’oggetto del racconto col racconto stesso e con il suo narrare.
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Sono molte le vicinanze tra l’opera di Porta e le riflessioni di Italo Calvino, e va dunque oltre la semplice concomitanza di date l’analogia tra la poesia citata e le Città invisibili, sempre del 1972. Scrittore ora anche troppo criticato, certo censurabile per alcune strizzate d’occhio, ma sicuramente dotato di grandi capacità prospettiche, Calvino è capace ancora di illuminare l’oggi, proprio con le sue riflessioni sulla forma/città: mentre molti suoi contemporanei risentono ancora della dialettica naturale/artificiale impostata secondo il criterio di attrazione e repulsione dell’Unheimlich, nelle sue opere si profila invece una immagine di città come luogo d’interazione addirittura fra umano e non-umano, nelle loro varie forme. Tale è il senso dell’aiola di sabbia in Palomar, dove la combinazione di regolarità e fluidità del giardino Zen descrive un’ “armonia possibile come tra due armonie non omogenee: quella del non umano che sembra non risponda a nessun disegno; quella delle strutture umane che aspira a una razionalità di composizione geometrica o musicale, mai definitiva… “.
Anche in Calvino la forma/città è immagine della complessità: le sue categorie, valide anche per il testo, sono processo, dinamica piuttosto che stasi, rete piuttosto che stratificazione. Questa forma è infatti per lui la combinazione di leggi complesse che agiscono sui due piani: uomo e territorio, ambiente geografico e ambiente culturale, psicologia e tecnologia. E per tale capacità di vedere la forma, come nella nota parabola del ponte, sostanziata dalle singole pietre e non solo dalla linea dell’arco, la letteratura acquista un valore di ricerca più avanzato della scienza, una capacità di progettare, di prospettare, di rivolgere lo sguardo avanti. La sua debolezza consiste nel fatto che questa operazione viene spesso compiuta inconsapevolmente, non per una sorta di vaticinante ispirazione, ma perché mancano all’autore le risorse critiche per verificare e sviluppare l’essenzialità del proprio discorso. La scrittura, in quanto strumento di conoscenza, ha dunque l’obbligo di non muoversi nel vago, ma deve porsi degli obiettivi misurati, quando anche siano irrealizzabili. Esattezza, visibilità, rapidità – per citare solo alcuni dei canoni fissati da Calvino rispondono alla logica di una alternativa forma di razionalità, che risente della natura dell’immagine (presente certo fin dall’inizio nella parola scritta, però ora riaffermata con diversa intensità e direttrice), ma sa poi farne non emblema definitivo né allegoria muta, bensì – come Gadda – enciclopedia aperta, anche quando abbia l’aspetto inestricabile del “groviglio conoscitivo”.
In questo senso, secondo Dombroski, Le città invisibili hanno un valore paradigmatico per il fare letterario degli ultimi decenni; la realtà non è negata, come vorrebbe il cliché postmodernista, ma viene usata nel farsi del testo, per quanto problematizzata come infinità di interpretazioni descritte attraverso un gioco combinatorio. Questo non è però fine a sé stesso o mimesi dello sterile funzionare, ma serve a dare una immagine architettuale, entro la quale le stesse immagini risultino moralizzate da nuove coerenze: anche a costo di una connotazione infernale, verso la quale non viene mostrata tuttavia nessuna rassegnazione né condiscendenza, alla maniera del Canetti della Missione dello scrittore. In più, l’autore riesce a sovrapporre magistralmente panorami interiori e strutture materiali, cogliendo anche il valore modellizzante che tale sovrapposizione ha (come nel caso della forma/città, fatta di immagini mentali e res solidamente corporee) rispetto a molti aspetti concettuali del nostro vivere e alle modalità del discorso collettivo, come si è già rilevato.
Le forme/città di Calvino inoltre aboliscono la gerarchia centripeta, includendo al loro interno, come si conviene, la molteplicità e differenza di una struttura che tende a replicare la propria conformazione generale nelle articolazioni profonde. È questo procedimento, in base al quale ad esempio ognuna delle città visitate serba qualche tratto di quella nativa del viaggiatore, a permettere la gestione letteraria del dettaglio autobiografico dell’esperienza, il quale, come ha recentemente ribadito anche Edoardo Albinati, non è destinato a diventare semplice materiale, ma si risolve in corpus di tecniche, mezzo per sperimentare. In questo modo il personale viene espropriato e diviene “comune”, e quindi (aggiungo col Richards dei fondamenti della critica letteraria, ma rileggendolo attraverso Searle) “comunicabile”, rimuovendo non l’origine, ma l’importanza esclusiva di tale origine, per riconoscere l’oggettività della “pura esistenza” e ristabilirne quindi il luogo. Quello che da Calvino come da altri narratori (Del Giudice, Celati) viene compiuto è quindi, nella lettura di Gian Paolo Biasin, davvero una mise en abime del proprio percorso, attraverso la quale l’autore diventa una “guida turistica” di sé (altri parlano di una sua “presenza registica”): questo sé perde descrizione e discorso a favore dell’altro, e pure mantiene i tratti di omogeneità, non si aliena del tutto.
Accanto a ciò sta l’accettazione della inevitabile testualità d’una riduzione a discorso della forma/città, rinunciando alle pretese demiurgico-ontologiche che avevano neanche troppo nascostamente animato molta écriture di quegli stessi anni: questo “farsi testo” invita a un rapporto fluido, scorrevole tra cose e segni, non bloccato da algebre del segno o rigori mimetici. Quelli dell’architettura e della città sono paradigmi del costruire, e richiamano l’attenzione sul dettaglio e sul processo materiale. Il compito della letteratura che si confronti con la forma/città è allora quello di riempire i vuoti e “rifare il mondo”, evitando l’angustia di un modello immobile e assecondando invece l’ampio e mai lineare procedere della civitas.
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Porta e Calvino, con la loro forma/città, vogliono dire che non è più per lo scrittore il tempo delle rovine. La nuova ragione critica deve imparare a essere veloce ed esatta, molteplice, visibile e flessibile (non debole!): davanti all’artificiale che si impone come nuovo naturale non si richiede tanto una “resistenza” rigida (destinata alla nostalgia e alla marginalità), quanto la capacità di adattarsi alla rapidità e di applicare comunque un distanziamento critico alla fluidità di un processo che è necessario in sé, proprio perché culturale è il nostro modo di evolverci. Davanti al futuro l’urgenza è non essere disadatti (gli apocalittici sono integrati, da questo punto di vista), ma consapevoli, partecipi criticamente, capaci di distinguere.
La risposta che la letteratura può trovare al caos o, meglio, alla complessità assomiglia al principio di invarianza delle scienze fisiche (la legge che vale sul minimo può spiegare anche fenomeni della scala più vasta e viceversa). E questa risposta consiste nel passaggio dall’ “io” al “qui”, dalla personalità “unica” alla coscienza del locus (anzi, dei loci) e delle “identità-relazione”: con la scelta di uno sguardo “fuori” diventa cosi determinante il punto di osservazione, la tecnica di inquadratura, il luogo da cui il “soggetto” (o i soggetti, o quello che si vuole) pronuncia la sua voce. Cosi lo stile non si risolve in ornamento, ma diventa davvero costruzione; cosi il discorso artistico, come il tessuto urbano, non deve sovvertire le sue linee, ma pure deve mettere in gioco i suoi codici, in un dialogo continuo tra il prima e il dopo e le parti, ridefinendo costantemente il proprio orizzonte non rispetto a “un’utopia” ma all’ “eterotopia”. Servono discrezione ed essenzialità per misurarsi col tempo; molteplicità e velocità per esistere nello spazio. La risorsa principale dello scrittore non deve più essere la metamorfosi, ma l’anamorfosi: la modificazione prospettica deve restituire senso etico al variare del punto di vista.
Bibliografia
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