IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 16, ottobre 1999
racconti brevi, pp. 26-33

Alessandra Buschi

Brevi d’autunno

Quando Antonello è rimasto a letto

   Quella mattina che Antonello è rimasto a letto fino a tardi non era domenica.
   Quando si era svegliato era uscito lentamente dal sonno, ma neanche quando fu completamente sveglio apri gli occhi. Faceva invece finta di dormire.  
   Sentì rumori, suoni, parole di chi si era già alzato e che ora era già preso dalle sue faccende.
   Sentì scendere le scale strusciando le ciabatte sui gradini: era Enrica. Senti sbattere la porta del bagno (era quella del bagno: si capiva perché per chiuderla bisognava tirarla a sé con forza fintanto non s’incastrava nell’infisso) e sentì acqua scorrere e il rumore soffiato di uno spray che spruzzava: Demetra. Senti un uggiolare sommesso, giù in cucina, seguito da un raspare alla porta: Bill, che aveva capito che il mattino era arrivato e che la casa si stava animando dopo il silenzio della notte.        
   Ma anche se era ormai completamente sveglio, Antonello continuò a far finta di dormire. Lo sapevano, Enrica e Demetra, che quello era per lui giorno di riposo, e cosi non lo chiamavano.   
   Di solito anche il lunedì, quando il negozio restava chiuso, Antonello si svegliava alla stessa ora di sempre, seguendo un ritmo che, ignaro di domeniche e giorni di festa, interrompeva il suo sonno sempre alla stessa ora, giorno dopo giorno. Cosi anche il lunedì, Antonello si alzava, si vestiva e faceva colazione come ogni altra mattina, quindi usciva alla stessa ora. Ma non faceva la stessa strada. Andava invece al centro, faceva spese, vagabondava per le vie affollate, guardava vetrine, comperava il giornale e si fermava a leggerlo seduto a una panchina del parco se non pioveva, oppure all’interno di un caffè se il tempo non era buono. Faceva quindi la spesa e tornava a casa. Preparava un pranzetto che Enrica e Demetra, una volta tornate a casa, una dallo studio, l’altra dalla scuola avrebbero mangiato con lui.    
   Ma stamani Antonello non aveva voglia di alzarsi e faceva finta di dormire. L’aveva detto, la sera prima: domattina voglio dormire fino a tardi non chiamatemi. Chissà perché, poi.
   Cosi era stato: Enrica e Demetra si erano alzate e si erano mosse per casa facendo le solite azioni e gli stessi rumori di ogni altra mattina: il ribollire della caffettiera che avvertiva che il caffe era pronto; Billi che usciva in giardino e che abbaiava al camion della spazzatura; Enrica che lo richiamava preoccupata che desse noia ai vicini; Demetra che preparava la cartella in camera sua, il rumore sordo dei libri che andavano ad ammucchiarsi uno sull’altro; un tintinnare di tazze e cucchiaini, fragranze di biscotti, latte caldo e caffe che andarono pian piano a scaldare una casa che era rimasta vuota di odori e rumori per tutta una notte.
   Questo ascoltava Antonello, gli occhi chiusi, ancora sotto le coperte, senza cambiare posizione, fermo nello stesso punto del letto in cui si era ritrovato appena sveglio.  
   Poi Enrica che entra in camera e che cerca qualcosa nell’armadio provando a non far rumore. Un tintinnio di chiavi, un debole e rassegnato guaito di Billi che viene di nuovo lasciato in cucina, il portoncino che viene aperto, richiuso, lo scatto del cancello, un cigolio.  
   In casa nessun rumore adesso. Antonello allunga una gamba, stira la schiena, ancora tiene gli occhi chiusi.       
   S’immagina li nel letto, sotto le coperte, cerca di indovinare la sua figura rannicchiata, dove sono le sue mani, se sotto al cuscino o se lungo i fianchi; prova a immaginare la sua espressione, le pieghe che il cuscino può avergli lasciato sul viso. Tenta di vedersi come non si è mai visto: addormentato. Cosi come invece Enrica lo conosce e lo può vedere: espressioni che il sonno cambia, rilassamenti che non sono della veglia ma che solo il sonno può portare, movimenti e posizioni che non si conosce ma che durante la notte gli sono naturali.
   Muove le dita dei piedi, quelle delle mani. Se solleva appena appena le palpebre vede filtrare attraverso le ciglia la luce che ormai invade la stanza. Con le palpebre socchiuse non riesce ancora a distinguere chiaramente i mobili e gli oggetti, coperti in parte dall’ombra delle sue stesse ciglia, come da un velo.         
   Pian piano apre gli occhi, nel silenzio della casa. Una mano gli è davanti al viso e gli nasconde buona parte della visuale. Chiude un occhio e con l’altro mette a fuoco le sue dita, talmente vicine alla pupilla da non distinguerne il colore, solo scure. Muove un dito e dall’ombra esce parte del comò; ne muove un altro e c’è lo specchio, vuoto d’immagini, che riflette il bianco della parete di fronte e la cui superficie appare come un lago ghiacciato.     
   Ancora nessun rumore. Billi sembra essersi riaddormentato giù in cucina, o forse è solo caduto nel silenzio della solitudine forzata a cui è costretto ogni mattina quando tutti escono e lui, solo, resta in casa. Non sa, Billi, che Antonello stamattina non è uscito: forse lo crede già fuori, e comunque lontano da lì.        
   Ora Antonello si è mosso, ha spostato il corpo sull’altro fianco e si è accorto di avere una gamba intorpidita, forse costretta troppo a lungo nella stessa posizione. Ha gli occhi aperti. Vede il comò, l’armadio, la toletta, lo specchio, la parete bianca, la porta che Enrica ha lasciato socchiusa uscendo dalla stanza.    
   Chissà perché ma ha la sensazione che quella sarà una giornata particolare: forse perché iniziata diversamente dal solito, oppure per quel vago senso di nausea che adesso gli sta salendo.      
   Antonello ascolta, fermo: non sa se si tratti di mal di stomaco o di fame. Fame, forse: a dire il vero a quell’ora di solito ha già fatto colazione, e il suo stomaco vuoto lo vuol semplicemente avvertire dell’insolito ritardo.    
   O forse davvero mal di stomaco, nausea vera e propria. Se cosi fosse, allora durante la giornata Antonello avrà di sicuro mal di testa. Questo lo sa per certo, visto che le due cose gli si manifestano sempre una di seguito all’altra: mal di stomaco e mal di testa, mal di testa e mal di stomaco, anche se non è mai riuscito a capire se questi siano uno sintomo dell’altro, e se si quale dei due si manifesti in conseguenza.  
   Adesso Antonello ascolta il suo corpo: dai borbottii sommessi dello stomaco al pulsare delle tempie contro il cuscino, da questi amplificato; dal soffio dell’aria che gli esce dal naso e che rimbalza sulla tela del lenzuolo andandogli a solleticare il labbro superiore, al rumore che fanno le narici nell’aprirsi per inspirarla.     
   Sta cosi, sdraiato sul fianco, pensandosi. È il suo giorno libero del resto, e ha tempo. Prende a toccarsi il petto per sentire il gonfiarsi e il rilassarsi dell’addome nel respiro, ma più si concentra nell’ascoltarlo, più si rende conto di forzarlo. Poi inizia ad ascoltarsi il cuore tenendoci una mano. E non ha ancora voglia di alzarsi.

Io sono Barbara

   Io sono Barbara, colei che osserva.
   Io sono Barbara, scruto, esamino, fisso, squadro, sbircio. Non posso fare a meno di notare, rilevare, spiare.       
   Se vedo qualcosa fuori posto noto subito che è fuori posto, manca un particolare mi rendo conto dello spazio vuoto che ciò che manca ha lasciato.   
   Io sono Barbara: osservo tutto. Ho visto macchie di muffa dietro i mobili che altri non hanno neppure notato, tolto peluzzi dai pullover che nessuno ha adocchiato, forme e fisionomie a cui nessuna fa mai caso.        
   Migliaia di rughe, migliaia di sopracciglia, tanti tipi di unghie, espressioni di stupore e di noia che volevano rimanere nascoste ma che io ho comunque letto nel volto della gente.        
   Io sono Barbara: me ne sto dietro i vetri della sala da pranzo e guardo giù in strada. Vedo gente passare, gatti che sfuggono alle macchine, manifesti sempre nuovi incollati al muro di fronte, stanze spesso illuminate e finestre che restano sempre chiuse. A me nulla passa inosservato: sono Barbara, io guardo tutto.   
   Quando vado a fare la spesa vedo gente e cose: i miei vicini con i bambini per mano, la pila delle cassette ammucchiate vicino al cassonetto già di prima mattina, bucce e scorze sotto i banchi del mercato.       
   Annuso, guardo, sento.         
   Potrei raccontare storie a centinaia e sempre di nuove. Io che ho conosciuto decine e decine di indici furtivi che salgono alle narici nei momenti meno sospetti; che ho notato risvolti di calzoni strusciati di fango, ginocchia sbucciate, lingue diverse (ognuno la sua); io che ho sentito parole parlate, parole a metà, frasi dette e non dette, domande, esclamazioni. Che ho annusato odori diversi e diversi tra loro ogni volta: odore di mare quando il mare è lontano, odori che arrivano dalla terra che sta sotto l’asfalto, odori buoni e odori cattivi, profumi.       
   Sono Barbara: colei che osserva. Sono qui per questo: per osservare. Forse sono nata per farlo, forse è questo il mio destino: scorgere lacrime e raccogliere risate che altrimenti andrebbero perse.
   Ho occhi e naso e orecchie. Non tocco perché mi basta cercare con gli occhi, annusare col naso e sentire con le orecchie per sfiorare uomini e oggetti come se li toccassi davvero.    
   So sempre che ore sono anche se non porto orologio perché sbircio quello al polso della gente; non ho bisogno di capire che tempo farà domani perché lo leggo dalle labbra screpolate dei pescatori che tornano al porto di mattina.     
   Sono Barbara, io: non ho bisogno di ricordare perché sono io che tengo i ricordi. Di chi è passato e di chi passerà.     
   Perché io fermo i ricordi, li accumulo, li serbo.  
   Perché ci cono cose che al presente non hanno significato ma che possono essere raccontate solo quando sono diventate un ricordo. E che io tengo, mantengo, conservo per quando lo saranno.  
   E allora io sarò Barbara, colei che ha osservato il passato e lo racconterà al presente.   
   Che ha visto, guardato.