IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 15, aprile 1999
racconti brevi, pp. 14-23

Alberto Forni

Occhi spalancati chiusi

   Sognare, sogno poco. Oppure i sogni non li ricordo.  Ma se è vero che ognuno di noi sogna, e sogna continuamente, allora di quello che accade nella mia mente nel corso della notte al risveglio, non rimane nessuna traccia.      
   Qualcuno, per essere precisi un ragazza, mi aveva suggerito di avere accanto al letto una penna biro, un bloc-notes, e non appena aprivo gli occhi prendere nota di ciò che ricordavo. Ci ho provato: son venute fuori alcune paginette di appunti come “Schiacciavo un pulsante” o “Una borsetta da donna scivolava da una spalla” o “Stavo discutendo con uno”. Insomma, niente di significativo, niente che avrebbe potuto suscitare un qualche interesse in un qualsiasi laureando in psicologia.  
   Cosi, forse per compensare, mi trovo ad avere una vita onirica molto attiva da sveglio. E tutti i sogni che mi sfuggono durante la notte, finiscono per ossessionarmi nel corso della giornata.           
   Per un certo periodo ho frequentato molto la farmacia del mio quartiere per via di una ragazza molto carina che ci lavorava. Per quanto riguarda il mal di testa, di stomaco, e vari sintomi febbrili ho finito per accumulare scorte sufficienti per circa un anno. Per alcuni mesi, io, ho impersonato il ruolo del cliente, lei quello di farmacista. Poi, una sera, mi è capitato di incontrarla fuori dalla farmacia. Senza camice bianco, senza registratore di cassa sotto ai polpastrelli, senza tutte quelle medicine intorno che mettono soggezione, mi è apparsa come una normale ragazza che camminava per strada. Da quel momento ho iniziato a provare un vero e proprio rifiuto di mettere piede in farmacia, e qualunque disturbo possa venirmi tento di superarlo con pastiglie antidolorifiche, o antiacidità, o anti febbrili. Mi piacerebbe incontrare nuovamente quella ragazza per strada, dirle “Come incarti tu il Moment, non lo incarta nessun’altra”, oppure “Gli scontrini battuti da te non odorano soltanto di carta”.              
   Io, vorrei dividere la mia vita con un’ altra persona. Vorrei farlo anche se, di continuo, mi viene da pensare alla storia di una mia amica che è stata sposata per dieci anni e ha fatto un figlio e ha comprato una casa. Cioè: regolare. Sennonché un giorno il marito le ha detto “Mi piacerebbe aprire uno studio di grafica computerizzata, plotter, scanner, tutte quelle cose lì, cose che servono”. Lei ha detto si, come no, certo, sei mio marito, facciamo sacrifici comuni per una vita in comune. L’appartamento è stato venduto, le attrezzature comprate, adesso lei è una donna separata che vive in una casa in affitto e deve imporre al figlio di non mangiare due merendine di seguito perché finiscono e bisogna aspettare il ventisette del mese. Il marito, oltretutto, prima di darsi alla latitanza matrimoniale ha pensato bene di azzerare il conto corrente di quei due soldi che erano riusciti a mettere da parte. Io penso: vacca puttana. Dieci anni a dirsi “Cosa prepariamo per cena?”, oppure “Dobbiamo ricordarci di comprare l’acqua minerale”, oppure “Domenica facciamo un salto dai miei” e un bel giorno apri gli occhietti e ti rendi conto di aver passato un terzo della tua vita accanto ad un perfetto sconosciuto. Vacca puttana. Brrrividi.     
   Comunque, la mia vira onirica  che prende forma mentre cammino per il quartiere non si nutre solamente di tensioni affettive. A volte manifesta una certa violenza, dei piccoli risentimenti quotidiani.             
   Infatti, nei confronti di un paio di persone nutro una certa avversione. Una è il barbiere, l’altra una quarantenne tarchiata e sovrappeso che fa la guardia giurata davanti alla Cassa di Risparmio di nonsocosa.                
   Al barbiere, che abita nel mio stesso palazzo, vorrei soltanto dire: “Capisco che lei è solo: la vedo uscire da solo e da solo rientrare e leggere giornaletti da quattro soldi mentre aspetta i clienti, però, come mai quando la saluto (rigorosamente all’interno del portone, perché nelle grandi città del nord, i condomini, già dal marciapiede antistante il palazzo fan finta di non conoscersi) lei non mi risponde mai?”. Solo questo chiederei.          
   La guardia giurata, invece, mi sembra tutto fuorché una guardia giurata, cioè una professionista sveglia e attenta e con l’occhio lungo. Questa cicciona qua non sta mai al suo posto: sempre a chiacchierare in quel suo cazzo di cellulare sempre a spanciarsi facendo battutacce col salumiere, sempre a commentare le copertine delle riviste con l’edicolante. Oramai, nel quartiere la conoscono tutti e tutti si fermano a parlare con lei. A tirar sera non ci mette niente. Per lei non sprecherei mezza parola, la licenzierei e basta. Per lettera. Gli affari suoi se li facesse a spese proprie. O no?         
   A volte, quando cammino, invece di fantasticare o arrabbiarmi rifletto e basta. Mi chiedo ad esempio se in questa città sia più facile morire di AIDS o di attraversamento pedonale, o se anche i concittadini ritengono che il cartello segnaletico di strada senza uscita somiglia a una specie di crocefisso senza testa e dalle braccia insanguinate.