IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 15, aprile 1999
poesia e critica, pp. 100-105

commento critico
Jean Robaej

Descensus ad Inferos

   Dopo il Limbo l’Inferno. Dopo le prime ventisette sequenze del Plenilunio di novembre, a sua volta prima parte delle Decisioni (vedi la plaquette del 1996 che riunisce i due titoli), ecco le prime nove sequenze finite e qui pubblicate per la prima volta della seconda serie (in tutto saranno tre) di ventisette dello stesso Plenilunio. Se sono ancora sequenze di tredici versi, questi si sono notevolmente allungati e nello stesso tempo fatti quasi quadri e più solidi, cosi come danno sempre più voce agli amici (per ora all’amico) che la voce che parla incontra. La decisione nell’allontanarsi dai moduli lirici è sempre più palese.       
   Dopo il Limbo (le prime ventisette sequenze raccolte nella plaquette) comincia l’Inferno. “ – Quando si prende la strada dalle / torri, verso i viali, a sera / […] / allora si cammina verso il centro”. Si entra nella città partendo dai viali e dalle torri dell’orgoglio, secondo un movimento ora concentrico ora verticale che si ripete all’interno della stessa città. Se se ne tocca subito il centro dove si ergono altre torri costruite all’insegna dello stesso orgoglio, riprende immediatamente la corsa su e giù per i gironi, su e giù per strade che ancora non si chiamano dell’Inferno (succederà presto, non siamo ancora entrati nel ghetto) ma significano Bologna, una Bologna che nutre già nel suo seno il verme – nascosto dietro una parentesi di oltre venti versi – che la minaccia (“passato il Guasto, fino a Petroni”), Bologna la città dove si dice “ ‘sipa’ tra Savena e Reno”. E sera, la città torna dal lavoro e l’amico incontra il primo amico che lo guida in questo primo tratto della discesa agli inferi: l’amico lo aiuta a camminare camminando anch’egli, parlandogli, invitandolo a guardare e ad ascoltare, fumando ed offrendogli da fumare (quasi fosse l’ultima sigaretta?). L’asfalto avvampa, le macchine ti sfrisano, l’inferno riluce e brilla.   
   Dante è onnipresente in questo testo. Ci si dovrà stupire di come il suo ultimo discepolo, che ad ogni passo riconosce in lui un esempio di scrittura (nel piccolo e nel grande, nel lessico e nella struttura, negli stacchi tra le parole e nel respiro delle sillabe) e segretamente di destino ideale, non rimanga schiacciato da tale influsso.
   Come nella Commedia, la poesia non teme qui di farsi spuria. In uno scritto penetrante sulla poesia di Salvatore Jemma, Una poesia di “fiamme blu ideali” (“Gli immediati dintorni” 5, Primavera 1993, pp. 92-94), Alberto Bertoni nota “una rimozione radicale dell’io psicologico e lirico”, e sulla stessa linea vanno letti alcuni interventi critici di Jemma (vedi soprattutto La coscienza delle parole, “Rendiconti” 41-43, febbraio 1997, pp. 116-18, e Note sul tempo della poesia, “Frontiera” 7, giugno 1998, pp. 43-50). Questa poesia appare spuria come appaiono spuri i suoi falsi sonetti di tredici versi che sono le varie sequenze; questa poesia rimarrà per sempre impura se non abbandoneremo i nostri soliti riferimenti e metri di valore. Non so sinceramente se tutti ne siano, nella pratica, nel piacere e nella sofferenza della lettura, davvero capaci; troppo è forse il condizionamento esterno, per cui questa poesia è in parte destinata a rimanere incompresa e letta distrattamente (né possiamo fare ipoteche sulla capacità di lettura da parte di chi ci seguirà). Questa è una poesia che rifiuta l’ispirazione facile nel senso che incanala preordinatamente l’ispirazione se non la crea; questa poesia è un progetto (non solo formale) e non un sentimento, ossia il suo sentimento si identifica con il suo progetto. All’autore non interessa esprimersi, ne ormai lo può più liberamente; la scelta l’ha fatta a monte: Bologna deve parlare e non lui, Bologna che parla tramite la sua voce idealmente soltanto passiva, ricettiva, voce che volentieri si fa da parte di fronte a quella degli amici che le sono solidali nella vita e nell’arte e nei riferimenti ideali (è il caso eclatante, dell’autista). La scommessa, e non uso la parola “fede” (certezza più che speranza) per sola ritrosia e mal riposta umiltà, è quella di annullarsi nella città perché essa sola viva.
   L’autista è roversiano, anzi abbiamo a che fare con una vera citazione del poeta bolognese. Roversi di cui Jemma (poeta bolognese anch’egli ma dalle origini profondamente meridionali) è, crediamo, il maggior figlio. Anche se appartato. Anche se sofferto. Citiamo di nuovo Bertoni, per il quale questa poesia “s’accende nel suo nucleo profondo del bisogno di registrare una sorta di affermatività o di positività dell’esserci e dell’esserci insieme […]. In pochissimi testi di oggi è presente un sentimento cosi spiccato del sublime, nella sua endiadi […] di stupore davanti al meraviglioso cosmico […] e di irrimediabile dissociazione tra interiorità e mondo oggettivo”.    
   In confronto a Jemma Roversi appare solare. Jemma è invece poeta contratto. Se si registra un “bisogno” di “affermatività” e di “positività”, se l’insofferenza di fronte all’esibizione del sentimento personale è reale, se la fede in un discorso che vada oltre quello lirico è profonda e fondata, nondimeno il rapporto con la lirica rimane problematico, nondimeno Jemma conosce – né potrebbe essere altrimenti – i mali che rodono tutti noi: e hanno nome solitudine, paura, disperazione. Giustamente si ricordano per Jemma i precedenti di Celan e di Zanzotto. E non sarei tanto sicuro, come mostra di esserlo Bertoni, che Celan sia stato in questo caso “sottratto al suo ontologico nichilismo”. Quanto a Zanzotto l’influenza andrà senz’altro registrata “per il nitore e il desiderio neoclassici del paesaggio e per la correlata screziatura etimologica, viva nell’effrazione costante del rapporto tra pulsare presente della scrittura e referenzialità enunciativa”; e si potrà precisare e aggiungere: la voce sempre sul punto di venir meno e di morire, è chiusa ed esce con sforzo fisico tra il singulto e il singhiozzo. (Ma nel confronto avrà la meglio il poeta più giovane almeno sul punto della leggibilità e dell’armonia musicale: il fiume che è il verso di Zanzotto è spesso bloccato e straripa in modo disordinato o si inaridisce per i troppi massi buttati nella corrente, o, per adoperare un’immagine diversa e quasi contraria, la troppa legna uccide il fuoco.). Jemma si tiene dentro le proprie lacrime, il fondo di questa poesia è drammatico: la scansione, sempre sul punto di rompersi e di morire a se stessa, rispecchia fedelmente tale drammaticità.    
   Vengono anche da qui – come sforzo di forte reazione a tale pericolo di afasia – il peculiare “sublime” e la particolare classicità (“una certa predisposta, classicheggiante poeticità degli enunciati”, dice esattamente Bertoni) della poesia di Jemma. A volte infatti questa poesia, cosi essenziale, assume una veste classica rigida e quasi di riporto; si tratta in quei casi per lo più di un lessico poetico alto, ricco di memoria (al di là dei casi di citazioni vere e proprie): “rimira” (due volte in queste nove sequenze), “fulgente”; altre volte si tratterà di un intero movimento sintattico: “alta la luna sopra i pioppi”.        
   Non solo, a dire il vero, tale forma classicheggiante appare meno frequente che non nella plaquette di poco più di due anni fa, ma si nota (e di nuovo lo ha fatto Bertoni), a controbilanciare tale classicismo, “un gusto espressionista” una profonda esigenza vorrei dire, se una volontà di forzare la situazione è insita in un progetto come questo di un nuovo viaggio dantesco (né va d’altronde dimenticato l’espressionismo appunto dantesco) e più in generale di un nuovo modo di vedere, di vivere e di scrivere poesia. Il risultato è un singolare miscuglio di colloquialità (a volte molto felicemente riprodotta nella sua stessa difficoltà di enunciazione: “tiene – dice ancora – e cosi noi – / e poi, fumando, riprese a camminare”), di neologismo e di alta allusione letteraria: “guarda la strada interminatamente”, “quando da lontano vampa / la città di case belle stanze; / o getta fuori voce / un bel canto intonando, tuttanotte / di pioggia battente sulle case”.    
   Il risultato è un singolare rapporto tra il metro e la sintassi, a nascita di un ritmo che allinea sempre più una voce rotta, un discorso minacciato dal silenzio, e un’armonia comunque ritrovata e trionfante. Spia dell’incertezza e dell’insicurezza dell’andatura sono le continue spezzature, violente (“- Quando si prende la strada dalle / torri” ecc.) o meno (completiamo il verso: “torri, verso i viali, a sera”), i discorsi lasciati sospesi con lunghe parentesi (e abbiamo ricordato il caso più clamoroso), continui trattini e svariati segni d’interpunzione tra cui il privilegiato punto e virgola (indice di un forte pensiero che ha bisogno di poggiare su forti basi), una prima ed apparente opacità sintattica (e citiamo il seguito della nostra prima sequenza: “nel traffico più intenso /guardando la linea a passo d’uomo / che macchine, dalla parte alta / all’altra congiungono nel fondo / e si esce da quella, oltre ponte”). La ritrovata armonia trionfante è rintracciabile a livello della sequenza (ce ne dà conferma il generale movimento altalenante tra tensione e riposo in tutte le sequenze: e basterà riprendere la prima dal punto dove l’abbiamo lasciata, da “allora si cammina verso il centro”) e del verso: a differenza di quanto sostenuto da Bertoni, sentiamo una sostanziale regolarità se non unità nel numero degli accenti se non nel metro vero e proprio (ma lo stile delle sezioni è in chiaro sviluppo) e ravvisiamo una scansione che mantiene una tensione epica. Soprattutto tale armonia viene ritrovata ed è propriamente esaltata da un elemento a prima vista ad essa contrario, un elemento costitutivo della scrittura epica, virgiliana forse ancor più che dantesca. Ci riferiamo a quelle parole – alcune addirittura andranno dette vuote seguendo le indicazioni di alcuni grammatici – dalla quantità di informazione effettivamente molto bassa e dalla ancor più bassa autonoma capacità di significare, parole che sono poste in Plenilunio di novembre in una forte posizione di rilievo ritmico, all’inizio cioè di una spezzatura che si estende in seguito nella misura successiva. Ci limitiamo ai casi più chiari e posti in fine di verso: “e come”, “che tutto 1′ anno”, “quello”, “cosi velocemente”, “e da”, “o”, “e quella”, “tuttanotte”, “cosi quella”, “di quello”: tutti elementi del discorso che vengono a ricevere dalla struttura, o a dare a questa, la stessa rilevanza dei casi apparentemente ben più pregnanti e autonomamente parlanti, carichi di significato, come “stiamo assieme”, “e ne è preso allora”, “le fa”, “aspetta”, “amore”, “ascolta il cuore”, “suona”, “la piega il calore”. Sic uoluere Parcas dice Virgilio e intendeva (e forse intende tuttora) mettere Salvatore Jemma ad epigrafe di questa nuova sezione: tale è forse la patina della lingua epica.   
   A Bologna si capita per lo più per cambiare treno. Con 1e parole “se passi per Bologna”, Roversi si rivolge ne L’Italia sepolta sotto la neve (vedi l’edizione Valverde, Catania 1989, p. 9) ad un possibile “Amico”. Io ti chiedo, amico lettore, di andarci apposta e di leggere questo Plenilunio di novembre.