IL ROSSO E IL NERO
anno 8, numero 15, aprile 1999
racconti brevi, pp. 6-13
Sergio Rotino
Cinque sogni, tre intermezzi
Primo sogno
Mamma dice “Fra un po’ bisogna andare a letto”. Usa sempre questa frase quando sono in casa, e guardiamo la televisione, di sera tardi.
“Ancora dieci minuti” le dico. “Ancora dieci minuti, va bene? ”
“Non ho detto subito” mormora. “Però bisogna andare a dormire, fra poco”.
Tutti e due rimaniamo in silenzio, a guardare qualche scemenza di programma nel silenzio che permea la casa.
Poi c’è lo squillo del telefono, lungo, persistente, e io capisco chi è che, dall’altra parte del filo, chiama a quell’ora e dico “Non rispondere, mamma. Lascialo suonare”. Vedo mamma che si muove, e ripeto “Mamma non rispondere, davvero”. Ma lei si alza, e io so cosa dirà la voce all’altro capo dell’apparecchio. Allora cerco di arrivare al telefono prima di lei, ma è come se un peso enorme mi tenesse ancorato alla poltrona. Mi sento dire supplichevole “Non rispondere, mamma”. Lo ripeto ancora una volta, ma lei alza la cornetta, e dice “Sì, pronto”. La pendola del salotto batte le ore. Mamma si gira a guardarmi, e la sua faccia si trasforma in una maschera da tragedia greca, e il telefono continua a squillare con quel suo lungo trillo metallico, e lei tende la cornetta verso di me e dice “É tuo padre, vuole parlarti”. A questo punto mi sveglio.
Secondo sogno
Siamo tra Bologna e Ravenna. Dentro l’auto si soffoca fuori è l’inferno. È luglio, oppure agosto.
Decido che fuori dalla nostra auto almeno si respira.
Guardo in lontananza, dritto davanti a me, verso le dune grigioazzurre dai contorni incerti, verso la calura impalpabile che le avvolge tutte nel suo abbraccio. Attorno a noi il giallo del grano è immobile, non tira un alito di vento.
“Ci siamo persi” dico. Scuoto la testa in un gesto di estrema rassegnazione. “É la terza volta che ci perdiamo”. Parlo senza esitazioni eppure non so a chi.
Mi poggio cauto allo sportello della macchina per non scottarmi, accendo una sigaretta. Ho il codino che continua a strusciarmi, fastidiosissimo, sul collo sudato. Lo afferro cercando di aggiustarlo alla meglio, ma è come se annaspassi nel nulla. Penso che se avessi un paio di forbici a portata di mano lo taglierei. “T’aiuto io” dice papà. Mi carezza la testa, saggia la consistenza dei capelli. E alle mie spalle, ma lo vedo ugualmente. In mano ha qualcosa di simile a un falcetto. Si muove rapidamente, non avverto dolore. “Ecco” dice. “Questo è il mio regalo”. Tra le dita sento la morbida consistenza dei capelli che, lentamente, si tramutano in qualcosa di secco e friabile. Le mie mani stringono della sabbia grigia e senza peso.
Terzo sogno
Lo stereo della Kadett di papà bercia attraverso i finestrini un vecchio pezzo dei Sonic Youth, si sentono i bassi che pompano soffocati con tutta la loro forza contro il metallo della scocca. La voce di Lee Ranaldo urla l’ossuta nenia di Stereo Sanctity con rabbia, cercando di sfondare il silenzio di questo pezzo di terra. Dice: Your spirit is time-reversed to your body Stereographic mix-up field on field It started growing up the day your body dies Only apparently, real to irreal. C’è un’immagine che non mi si ferma abbastanza nella testa perché riesca a trattenerla e metterla a fuoco. La voce di Ranaldo mi sembra annoiata e senza sentimento.
Lancio il più lontano possibile quanto rimane della sigaretta con un gesto morbido e articolato braccio-dita, cercando la parabola perfetta. Quando tocca l’asfalto, il mozzicone semina attorno una rissosa pioggia di scintille, l’ultima resistenza vitale prima della morte, poi si spegne.
Intorno ho come un muro di cinta, alto, di cui non si vede la fine. Vedo papà carezzare la superficie, cercare degli appigli. “Bisogna scalarlo” dice e inizia a salire, leggero, quasi senza peso.
Quarto sogno
Mi posiziono davanti all’anta dell’armadio, in camera dei miei. Lo specchio mi riflette per intero, tagliando via solo i piedi. Inizio a scimmiottare le pose di non so più chi, a fare lo scemo, a gonfiare i pettorali e tirare dentro la pancia come certi attori in pellicole di pessima qualità. Di mio aggiungo dei movimenti coi capelli, che se ne vanno da tutte le parti, come se avessero vita propria. Accompagno il tutto con piccoli commenti senza senso, dialoghi inventati sul momento.
Papà se ne rimane immobile, sotto l’arco di un vecchio portone, lontanissimo da dove mi trovo io. Sulla faccia ha un’espressione, un’espressione… come di disgusto, ecco. Non mi rendo conto della sua presenza, continuo ancora a scimmiottare fotogrammi di pose improbabili.
Quando lo vedo ho come un senso di vertigine. Deglutisco a vuoto, sento una vampata di calore salirmi fino alla radice dei capelli.
Non so dove sotterrarmi.
“Dovrei tornare solo per vederti fare questo” dice, e scuote la testa.
Rimango impietrito, le mani abbandonate lungo i fianchi, gli occhi a spazzare il pavimento. Me ne resto in un silenzio senza attenuanti.
Rimango immobile per non so quanto tempo, evitando di guardarmi allo specchio. Sono sicuro, oltre ogni ragionevole dubbio, che se mi guardassi nello specchio vedrei riflessa la figura intera di un ragazzo senza piedi.
La faccia del ragazzo non sarebbe la mia.
Intermezzo I
È mattino, fa caldo. Il cielo ha la consistenza di uno specchio d’acqua. Sto correndo lungo via Indipendenza, ho il cuore in gola e i polmoni che mi scoppiano. Dietro di me sento il latrare dei cani. So che mi stanno dando la caccia, so che se mi raggiungono è la fine.
È un branco di cinque bestie, longilinee, agilissime, dal mantello nero e lucido.
Non le vedo, ma lo so. Per qualche strana ragione, lo so. E so che, per quanto distanti possano essere in questo momento, stanno conquistando terreno, mentre io non ho quasi più fiato.
Non c’è nessuno per strada cui chiedere aiuto, nessuno.
Arrivato in fondo a via Indipendenza mi fermo un attimo, cerco di raccogliere le idee, di capire cosa posso fare. Sulla destra vedo il deserto di via Ugo Bassi, a sinistra inizia l’abetaia.
Sento che in mezzo agli alberi sarò al sicuro.
Percorro quella decina di metri necessari a entrare nel bosco, le gambe che si piegano, non tengono più lo sforzo. Supero la prima fila di alberi, mi accascio esausto dietro alcuni cespugli. Il cuore mi pulsa nelle orecchie, quasi non riesco a respirare. Da dove mi trovo posso vedere l’arrivo dei cani. Annusano l’aria disorientati, cercano almeno una traccia del mio passaggio. Ma niente li conduce verso il bosco. Girano irrequieti su se stessi, uggiolando, ringhiando. Sto fermo, perché anche il più piccolo dei rumori può rivelare il luogo in cui mi nascondo. Poi vedo il branco dividersi, e sparire in direzioni opposte.
Aspetto ancora un po’, temendo un loro ritorno. Ma non accade nulla. Allora mi metto a piangere, e continuo a farlo fino a quando gli occhi non mi si chiudono per la stanchezza.
Intermezzo II
Papà dice “Sono le cinque. Tra un’ora dobbiamo essere in stazione”. Mi porge premuroso una tazzina di caffè. “Sbrigati” dice prima di allontanarsi.
Oggi ho la visita al Distretto militare. Avere papà come accompagnatore ufficiale non è che mi piaccia molto, ma lui ha deciso che cosi doveva essere. Ha scelto gli orari migliori, fatto i biglietti per il treno, organizzato il pranzo…
Bevo il caffè, mi alzo. Metto i calzini e la camicia blu da lavoro, quella pesante.
Passo per il corridoio, diretto in bagno. Quando sbircio in camera dei miei, vedo mamma distesa immobile nel letto, i capelli che le fanno da corona.
In bagno la radio è accesa su una stazione stupida, trasmette non so bene cosa.
Papà si sta facendo la barba. Lo vedo passare con sicurezza il rasoio affilato sulle guance, portando via, gesto dopo gesto, strisce bianche di schiuma e peli.
“Non avresti dovuto fatti la barba” dico. “Adesso si, che siamo in ritardo”.
Scuote la testa. “C’è tempo” risponde. E si gira a guardarmi.
Il sangue è dappertutto, la maglietta di papà è intrisa di sangue.
Vorrei urlare, ma le labbra sono come incollate.
Papà mi guarda senza capire.
Vorrei urlare, ma non ci riesco. Indico la maglietta, il rosso carminio che la inonda.
Allora lui capisce. Mi sorride tranquillo, come se fosse una cosa normale. “Il primo sangue” dice.
Vorrei urlare, ma non posso, perché lui mi fa segno di stare zitto. “Non vorrai svegliare mamma” dice.
Intermezzo III
Cammino nel bosco da non so quante ore, ma sono tranquillo. Non sento più il latrare dei cani. Il vento scivola leggero fra le cime degli alberi.
Seguo un sentiero di foglie che dovrebbe portarmi a casa. Ma il sentiero diventa una strada di terra rossa e pietre taglienti che divide il bosco in due, scendendo ripidissima verso non so cosa. Devo stare attento a dove metto i piedi, se non voglio perdere l’equilibrio e cadere e tagliarmi. Allora cerco di tornare tra gli alberi, ma qualcosa mi dice di non farlo. I cani mi hanno trovato, sono acquattati tra i cespugli. Se tendo l’orecchio posso sentirne il respiro basso, minaccioso.
Il sole sta calando, l’unica cosa che posso fare è seguire la sterrata.
Quinto sogno
Non ho tanta voglia di nuotare. Siamo a fine luglio, ma fa ancora troppo freddo.
È il fratellino a convincermi. “Stai tranquillo” dice. “Ci sono io, cosa vuoi che ti succeda?” “E per ricordare i vecchi tempi”, aggiunge.
Ci penso, non capisco proprio a quali “vecchi tempi” voglia alludere. “Ma si, dai, i vecchi tempi” insiste. Ha una espressione cosi disarmante sulla faccia, che non riesco proprio a mandarlo a quel paese. Cosi ci leviamo i pantaloni, le magliette, le scarpe, le calze, e rimaniamo nudi a curiosare con lo sguardo l’uno sul corpo dell’altro, come a riprendere una confidenza morta da tempo. Il freddo si impossessa dei nostri corpi, batto i denti. A un certo punto dico “l’ultimo che entra in acqua paga pegno”. Percorro i metri di arenile che mi separano dal mare, correndo.
Sento il fratellino che arranca dietro, con l’affanno delle troppe sigarette, deciso a recuperare il distacco. Ci tuffiamo contemporaneamente, l’acqua è gelida, uno schiaffo che mi intorpidisce i pensieri.
Cerco di fargli vedere come sono diventato adulto, al fratellino, e mi impegno in acrobazie sottomarine, trattenendo il fiato più di quanto posso.
Riemergo che il tempo si è messo al peggio. Nuvole gonfie di pioggia si allungano per l’orizzonte, il vento increspa la superficie del mare.
Mio fratello è come svanito.
Le correnti mi hanno spinto a largo, la riva è diventata un tratto leggero di pennarello. Cerco il fondale con i piedi, mi allungo, quasi vado sott’acqua: c’è solo acqua. Provo a nuotare cosi da avvicinarmi alla riva, ma le correnti mi lottano contro. Ho le braccia stremate nel giro di un niente. Non so cosa fare, vorrei mettermi a piangere ma non voglio darla vinta a mio fratello. Dovunque si sia nascosto, non sta aspettando altro che di vedere la mia debolezza, almeno una parte, una piccola parte. Allora mi metto a nuotare di nuovo, con rabbia, schiaffeggiando le onde con le mie bracciate, ora dure e legnose.
Arrivo a pochi metri dalla spiaggia e vedo papà che prepara la canna da pesca.
Ha già aperto il sediolo, conficcato nella sabbia il termos del caffe. Sono felice, quasi euforico. Mi sbraccio, cerco di richiamare la sua attenzione, ma lui non mi sente, o fa finta. Allora ricomincio a nuotare per raggiungerlo, mi ci metto d’impegno, con un filo di speranza in più, ma le correnti mi spingono fuori, fanno muro.
Per quanto mi ostini non riesco a muovermi di un metro in avanti.
Sento le braccia diventare sempre più pesanti, comincio a scivolare sott’acqua, bevo. Capisco che sto per annegare, allora faccio un ultimo tentativo di richiamare l’attenzione di papà. Lo chiamo, lo cerco disperatamente con lo sguardo, ma dov’era prima lui adesso c’è un ragazzetto che stringe tra le mani una canna da pesca, pronto a lanciare la lenza. Mi sento tradito, mi sento fiacco, non mi importa più di niente.
Ho le braccia che sono diventate rigide, pesanti, ho freddo, ho sonno.
Mi lascio andare, sento le correnti che mi abbracciano e spingono giù, verso il fondo. Non oppongo resistenza, sono troppo stanco.
Chiudo le palpebre, rapida dissolvenza. Buio.