IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 14, ottobre 1998
racconti brevi, pp. 6-13

Anna D’Elia


Sguardi

  1. La casa del parente lontano

   Stava navigando in rete, quando gli apparve uno che si chiamava come lui, viveva in Italia. Si collegò: era sicuramente un parente lontano. Avevano la stessa età, mese più mese meno, giocavano in internet al fantacalcio, fu cosi che si conobbero. Fissarono l’appuntamento per l’estate successiva, ma aveva cominciato i preparativi con molti mesi d’anticipo. Non si erano scambiati foto, solo qualche informazione: altezza, colore dei capelli, numero di scarpe, più per ridere. Amava le sorprese e non lo avverti quando prese l’aereo. Gli avrebbe fatto un’improvvisata. Arrivò nella tarda mattina di una calda giornata di primavera. La casa era fuori città: una palazzina a due piani, quei rustici che i contadini costruivano nella Bassa del Po e che i cittadini comperavano molti anni dopo, stanchi di vivere in città. Due piani e due balconi per ognuno, due antenne per appartamento, quattro falchi in cielo, due per ogni inquilino. Intorno campagna, prato avrebbe detto, ma avvicinandosi si accorse che era fieno, basso, basso. Davanti al portone una utilitaria bianca e, ad uno dei balconi al piano di sopra, le serrande alzate e sulle ghiere gli asciugamani stesi. – “C’è” ‒ pensò e si senti sollevato. Non era detto che le sue sorprese riuscissero sempre. Nel balcone al primo piano una sedia bianca di plastica, ma le serrande abbassate, come nell’appartamento a fianco, senza segni di vita. Decise di farsi un giro, per prendere confidenza, prima di citofonare. Quell’eccitazione mista a disagio lo teneva su. Quattro cipressi sagomati davano il passo alla facciata, uno due, uno due. Con lo stesso andamento, mano dietro la schiena si avviò, dopo essersi liberato dei kleenex che aveva in tasca. Due bidoni davanti alla staccionata e, sollevando un coperchio, capì che erano stati svuotati da poco. Una mosca gli si avventò contro un po’ stordita. Dietro, una siepe di gerani e una pianta fiorita di rose.
   Amava la natura il suo parente e s’intendeva di giardinaggio. Gli diede un po’ fastidio, poiché lui era il tipo che non si direbbe un pollice verde. Anche per questo, decise d’inoltrarsi alla ricerca di qualche altro indizio. Un rincorrersi di siepi, alberelli e graste in fila. Un cespuglio con le radici nella serratura del cancello, la peluria dell’edera sull’intonaco rugoso, ma si accorse che erano foglioline appena spuntate. Un’incerata verde con quattro mollette copriva un pezzo di muro, per proteggere una piantina, lo pensò ma non ebbe il coraggio di scostare il telo. La porta di servizio in anticorodal era stata cambiata da poco e le mattonelle rotte non erano state sistemate. Toppe e cuciture di cemento dicevano la verità sul reddito del parente. Non aveva denaro da buttare, anche se dalla facciata, si sarebbe intuito un certo benessere. Era solo trascuratezza o mancanza di tempo. No, la cura che notò nella verandina lo smentì, ma gli confermò che non doveva nuotare nell’oro. I mobili di serie, i mattoni di terza o quarta scelta, le sdraio con i fili di plastica tesi. Un tipo sedentario, poteva essere più la casa dei genitori o dei nonni, non se l’immaginava uno della sua età ad inchiodare quel ragno di fil di ferro, accanto al campanello e le rondinelle di ceramica sul muro di fronte. Un nostalgico, un bambinone. Ma alla stizza subentrò simpatia, come se lo conoscesse da sempre! Non era un lontano parente, era quel fratellone matto rimasto a casa. Una macchia rosa tra i pitosfori, lo distrasse, era Biancaneve con la testa coperta da una busta di plastica. Chi è venuto a trovare: uno dei sette nani? Quell’apparizione lo mise di buon umore. Si avviò con passo deciso verso la porta, suonò. Non gli rispose che il vicino, dal balcone. Era partito, non sarebbe tornato prima di quindici giorni. Strinse i denti e il pugno. Ecco: le sue sorprese! Ed era stracarico. Avrebbe potuto portargli un regalo più piccolo. Chiese di lasciare il pacco: un regalo. Quello gli fece cenno di aspettare. Scese. Poteva metterlo dentro, gli avrebbe aperto. -“Cosa devo dirgli?”- s’impalò davanti in attesa di una risposta e lui non riusciva che a guardarsi attorno, pensando una cosa dopo l’altra. Non era neppure più tanto deluso, per la fortuna di essere potuto entrare. -“Lascio un biglietto”-, disse al vicino e si avviò verso il tavolo, cercando una penna nelle tasche e un pezzo di carta e, intanto guardava la stanza. Scaffali pieni di libri e dischi, musica classica e filosofia. Credeva di trovarsi nella casa di un tifoso con l’hobby del giardinaggio. La persona che abitava li era del tutto diversa da come se l’era immaginata. Era la stanza di uno che resta con la testa sui libri per giorni, mesi. Tutte le pareti erano romanzi, album, atlanti, ma più di tutto libri d’arte e di fotografia. Non ben rilegati e nemmeno in ordine, libri presi e lasciati ogni giorno, con i bordi consumati e le pieghe nelle pagine, libri accavallati, coperti da altri libri, cartoline, quadretti. Fu frastornato. Il vicino, vedendo che restava fermo con quel pezzo di carta e la penna in mano, gli fece cenno che sarebbe ritornato dopo un po’. Il suo ospite fingeva di essere assente e invece aveva lasciato li: occhi, mani, piedi, voce, anima e l’aveva fatto sedere alla sedia dove di solito sedeva. Accarezzò i braccioli e fu come se stesse toccando il braccio dell’amico, non era più solo un lontano parente, né un fratello, era diventato un amico, un amico che ama la stessa musica, la stessa pittura, un compagno con cui condividere le pagine di un racconto. Guardò dalla finestra: un sottobosco di giovani pini gli si offri dal muro di cinta della casa di fronte. Era su quel pezzo di terra che gli occhi dell’amico si posavano ogni mattina. Senti l’alito del suo respiro dietro la nuca e si voltò di scatto.

 

  1. L’uomo che era diventato un altro

   Alle nove in punto passava davanti alla vetrina. Era estate, i bikini poggiati sulle spugne colorate, intorno ai fianchi dei manichini di plastica color pelle. Restava con gli occhi aperti ad annusare l’odore di quei corpi. Era inverno: le sciarpe avvolte intorno al collo di quegli uomini di plastica, la testa in corda, le orecchie in gomma, i capelli in cellophane.
   Passava di lì ogni giorno da quando era stato assunto nell’agenzia per scrivere slogan. Due minuti per far ridere, piangere, soffrire, una frase per far comprare dentifrici, calzamaglie, pantaloni, collant. E’ un paroliere, le parole sono diventate altro per lui. E non avrebbe saputo dire cosa, le avvertiva minacciose, suadenti e insensate. Era in questi pensieri quando vide nella vetrina non la sua immagine riflessa, ma un manichino uguale a lui. Sorrideva porgendogli orologi. Ne aveva dappertutto, infilati alle dita come anelli, al polso, uno accanto all’altro, intorno al collo, in testa, sulla cintura, dentro i bottoni. Era un manichino in cera: il colore dei capelli, le rughe, le lentiggini, i baffi, il naso… perfetti. I vestiti: la sua giacca, la sua camicia. Lo stupore venne prima, segui l’indignazione e la paura. Si allontanò a passo veloce. Vedersi esposto gli sembrò un avvertimento. Era una vendetta, l’inizio di ciò che gli sarebbe potuto capitare nel ripetere frasi sempre uguali, che apparivano diverse come quegli orologi per misurare il tempo che non aveva più. Rise di se stesso.
   Quel manichino era un capolavoro. Chiunque l’avesse fatto, meritava i suoi complimenti, neanche un difetto e l’espressione giusta, con gli occhi puntati negli occhi di chi gli sta di fronte. Si alzò con la scusa di un caffè e andò a rivedersi nella vetrina. Provò una sensazione di sollievo. Va a spiare di continuo quel suo sosia, vuole vivere come lui, essere come lui. 
   Da quando è lì, il negozio va a gonfie vele. Dalle finestre dell’agenzia vede la fila davanti alla porta e vorrebbe stringere la mano ad ogni acquirente. Ci sa fare il suo sosia: pronunzia con l’accento giusto uno slogan dopo l’altro. Gli ha tolto la faccia, la camicia ed ora gli sta togliendo la lingua, sulla sua bocca le parole ritrovano un senso. Addosso a lui, tutto torna al posto giusto. Questo pensa l’uomo che passa davanti alla vetrina sempre più spesso e resta a guardare sempre più a lungo. Si compra un orologio, un altro, un altro. Essere un orologio, questo vuole per sentirsi contento. Non crede ai suoi desideri: lui che non dava valore al tempo non sapeva quand’era estate né inverno, ora scatta al suono della sveglia, conta i minuti, accelera il passo, freme e si guarda in vetrina. Corre, si affretta, cerca di darsi un tono. E’ un vincente, per lui il tempo è denaro, corre come un atleta, salta, supera ostacoli.     
   -“Il successo è una sfida mentale”- grida lo slogan nell’attimo in cui salta in alto, lui che non riusciva a superare la barriera di ottanta centimetri. Salta in alto su una enorme lametta di rasoio ed intorno la folla applaude, ce l’ha fatta grazie al movimento meccanico ed alla carica automatica, made in swiss 1860. Lo attende un tuffo. Il sosia gli porge un subacqueo garantito fino a 200 metri. Deve farcela, lui che si sente soffocare non appena immerge la testa, lui che ha imparato la respirazione dopo tre mesi di piscina. Medusa -“della sfavillante collezione cuba”- non gli dà tregua. E’ nella sua mano, sale verso il polso, gli si avvinghia è uno swatch: spring/summer collection. Numero verde 1678/2101014. Fa in tempo a scriverselo in mente prima di morire. Di quanto metri sarà sceso? Il sosia incalza. -“Mare!”-, ma lui non sa nuotare ed è salvo per miracolo, un altoparlante urla: “Cronografo al quarzo con count-down programmabile dieci minuti prima del via. Lunetta tattica per il calcolo degli angoli di bolina. Cassa d’acciaio impermeabile fino a 100 metri.”- Il mare è forza otto, ma il sosia non arretra:- “merit cup, regatta watch prima di tutto”-.
   E’ cambiata cosi la sua vita da quando c’è l’altro. È osservato dalle vetrine e dai muri, dovunque vada, dappertutto a destra e sinistra. Occhi che lo giudicano in ogni momento e non sa più dove nascondersi. Vorrebbe cambiare faccia, nome, cognome, vorrebbe rifarsi una vita lontano da quel falso di successo che lo assedia di continuo. Ma la sua copia vincente è dappertutto, moltiplicata in serie, una immagine accanto all’altra sui muri dello stadio a recitare orologi per venti metri lungo la palizzata. Guarda in alto e si vede, pupazzetto in tenuta da sub a fotografare lo swatch, in pantaloncini corti a gambe alzate, numero otto, la maglietta è a righe nel cartellone in bianco nero. Guarda in basso e ascolta amplificata la sua voce, che gli rimbomba nell’anima. Lo perseguita con i suoi slogan. Gli fa domande, una dopo l’altra, lo irride. Sbagliato. E’ un errore vivente, un esemplare mal riuscito. Guarda a sinistra e lo investe con squilli. Guarda a destra e lo investe con suonerie. E implacabile. Gli insinua sospetti, gli infonde paure. Quando lo vede perso in un attimo di stupore dinanzi a un tramonto o agli occhi di una donna, lo ricopre di ingiurie.         
   Hanno stampato gli orologi sulle lenzuola e l’uomo non ha più il coraggio di infilarsi nel letto. Non esce che di rado, ha il terrore di guardare una vetrina, di attraversare la strada, non accende più neppure la televisione. E’ arrivato fino a quel punto. Non era stato molto tempo prima. Si guarda in uno specchio, ma non riesce a vedere che un congegno comico e ride, ride, ride l’uomo fino a crepare.