IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 14, ottobre 1998
poesia e critica, pp. 89-95
commento critico
Davide Rondoni
Nascere, rinascere
Nel primo mistero glorioso di questa poesia di Gianfranco Lauretano, contempliamo l’incipit. Un verso e mezzo stupefacenti. Innanzitutto per lui, credo. Infatti, la poesia per Lauretano è sempre qualcosa che lo sorprende. Qui non si incontra un autore che sta “creando”, non assistiamo – nonostante la figura poematica e quindi drammatica e in progress – solo a una poesia che sta nascendo dal cuore, dalla mente e dal ventre di un autore. Qui e quasi sempre nella poesia di Lauretano vediamo anche che lui l’auctor ci viene di fianco, a osservare anch’egli cosa sta succedendo. È dantesco, perciò, nel senso più profondo del termine. C’è sempre un’azione doppia da considerare, non basta osservare che succede il testo, ma ci si presenta subito dinanzi agli occhi l’azione completa della poesia: c’è un uomo che la legge. Incontrare una poesia di Lauretano non significa solo assistere alla messa in scena di cui l’io-testo è regista e capocomico e protagonista: qui sembra anche che il poeta sia un ragazzo che ci raggiunge e si mette di fianco, condivide lo stesso stupore, con noi si mette a guardare. L’io-testo che ha tiranneggiato nella poesia novecentesca ha convissuto lungo il secolo con un io-con-il-lettore che è figura meno consueta ma non per questo meno forte (si pensi a certo Rebora, o a Testori, a Pasternak, o a certe vette di ermetismo non ermetismo di Luzi e di Bigongiari). Tutto ciò lo si percepisce più che dagli argomenti dei lavori di Lauretano (spesso cosi privati, cosi immediatamente personali) dal tono, dalla grana della voce. Da quel che da più di dieci anni noi – io e lui – della rivista clanDestino chiamiamo il “gesto”.
Abbiamo sempre indicato la poesia come “gesto” perché essa ci è apparsa cosi, come un gesto che qualcuno ci ha compiuto dinanzi, in mezzo ad altri gesti. Dopo aver messo via i piatti in una malvissuta cucina di appartamento di studenti universitari, qualcuno si metteva a parlare di poesia. O in una piazza di Forlì, qualcuno molto alto, ricordando i versi di un poeta straniero, riusciva a dire quella notte, quella piazza più di ogni gazzetta o di ogni sociologo. Poi di parlava d’altro, si fumava.
Un gesto, dunque. Una cosa ben precisa, ma non isolabile dalla trama dei gesti quotidiani. Con lo stesso valore e la stessa responsabilità. Con una proprietà speciale, certo: la poesia è come quegli archi di pietra nel deserto o in certi angoli del mondo dove per un istante si fa sentire la voce del vento, quel che non vedi. Il gesto del poeta ha la proprietà – quando è autentico ‒ di farci vedere che il mondo col suo mistero succede, che la vita è un accadimento. Una proprietà elementare, un lavoro di base. Un lavoro che ti può occupare, nel senso di invadere, un gesto in cui ti giochi la vita. Per questi motivi io e Gianfranco non abbiamo mai sopportato quelli tra i poeti che se la tirano, i “sacerdoti”, i letterati, i forzati della recensione. Quando iniziammo “clanDestino” (e il merito del titolo è suo) rivolgemmo i nostri musi di ventenni anelanti alle figure e all’insegnamento di poeti che pur con angolazioni di gusto differenti ci pareva portassero un gesto di poesia non viziato da separatezze, vanaglorie, snobismi. E che pur guardavano alla poesia e all’arte con il tremore con cui si guarda una beltà – per quanto violenta o dolorosa – che non si merita certi colloqui con Testori, la disponibilità profonda di Luzi…
Tutto quel che ne è nato, dalla vita decennale e ricca di “clanDestino” al Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, dalle letture con mescita di vino a Milano alle serate di poesia nelle Centrali elettriche, e ai libri, ai microritrovi, alla compagnia sulla strada di più giovani, etc, è come un grande gesto di “critica” della poesia, di partecipazione e di giudizio, che reca in profondità il segno di una stima del gesto poetico come gesto pienamente umano, come possibile punto dove suona il vento che ci porta tutti e che non si vede. La comune esperienza cristiana ha significato per me e Gianfranco non una comune “visione” o un “gusto” comune: ma uno stesso grado di intensità di stima per quanto di autentico abbiamo incontrato nelle migliaia di lettere, di plichi, di libri, di incontri e di scontri in cui ci siamo imbattuti. Il cristianesimo c’entra con la poesia come allargamento del gusto per la scoperta che essa permette dell’accadere del mondo, come moltiplicazione di gusto. E semmai porta un grano in più di carità, innanzitutto verso se stessi, che è la più dura.
Ma, dicevamo dunque, nel primo mistero glorioso… il verso e mezzo iniziale… Splendidi. Assoluto o assoluti, completo anche e forse proprio in quest’essere monco, irrisolto o irrisolti. Come fa ad essere splendido un verso e mezzo? È contraddizione, è scandalo per i formalisti di ogni razza. Eppure qui succede cosi. Non so se Laurentano abbia letto il George Steiner di “Vere presenze” o il Pavel Florenskij de “Le porte regali”. Di certo ha una preparazione e una sensibilità con qualche conto aperto con la tradizione estetica ortodossa. Questo “incipit” ci porta fulmineamente al cuore della sua “poetica”: scrivere è il gesto che mette dinanzi alle presenze, mette in mezzo alle autentiche presenze. Il gesto artistico non vive per ricomporre ad un altro livello (e quale poi, la chiacchiera erudita o quella da salotto?) il mondo. Lauretano fugge quel che Pasternak chiamava l’acquosità del simbolismo come una peste. Anzi, per lui semplicemente non è mai esistita. Il gesto d’arte accade quando introduce al mistero eveniente del mondo, alla vera Presenza che è nel presentarsi di ogni cosa. Ma tale presenza non è al fondo di uno sfuggire di metafora, di un rinculare perpetuo di simboli, di uno svagare di “corrispondances”: è in una casa, in una stazione di posta.
In questo testo la poesia e il pensiero di Laurentano portano nella penombra di una meditazione difficile, a tratti oscura, dove al nitore di certi versi si sposa il tumulto d’altri. La nascita difficile, rischiosa è la figura del farsi umano. L’uomo nasce sempre difficilmente: lo aveva detto con altro accento il Leopardi del “Canto notturno”. Qui il tema (e su questo altro non dico) è la necessità per ognuno di rinascere sempre, rinascere non per forza propria ma per abbandono. Come se l’adulto potesse in qualche modo rendere etica cosciente quell’abbandono che certamente permette ad un certo punto al feto di nascere. Quel medesimo abbandono… Nessuno nasce per volontà, si nasce per una forza strepitosa d’amore.
L’oscurità di Lauretano è sempre una penombra. Certi versi (come il finale della prima strofa, il gesto emblema di Braque nella seconda, quella parentesi nella terza) sfiammano come fuochi chiari nella sera. Questa poesia è una casa nell’ombra dove però certe pietre danno ancora il chiaro del giorno.
Personalmente non credo che la misura più adeguata al respiro poetico di Lauretano sia il poemetto. Se lo ha scelto ‒ sapendo bene che il passo a tratti gli sarebbe mancato, sarebbe incespicato (come ai tre quarti della quarta strofetta) – è perché il filo di pensiero poetante che si è trovato in mano lo ha esigito.
È il pensiero, infatti, nella poesia di Lauretano che mena la danza; non la perizia, non il gusto della trovata. Si vede che doveva arrivare a dire, a scrivere “sacrificio”, cioè l’abbandono attivo, il sempre rinascere. Lauretano, a differenza di tanti altri poeti, scrive perché deve arrivare a dire, non svolge un già pensato, non distende un già parlato. E una poesia che conquista la sua materia, si avvia senza possedere nulla, nemmeno una chiarezza circa lo stile. Il corpo del testo che ci troviamo tra le mani è vivo anche per le sue sconnessioni, i mancati agganciamenti, le cadute. Eppure si dà infine qualcosa di compatto.
Sono pochi i poeti come Lauretano. Mettono un disagio, perché dopo due parole han già bruciato, o meglio, ti han già fatto sentire come inutili tutte le idee, le avvertenze, le conoscenze che hai circa la poesia e la letteratura. Iniziando a leggere un suo testo ci si trova a legger per la prima volta, stupendosi del fatto che qualcuno scriva. Ciò non avviene con brutalità, pur se l’amputazione duole e quasi dà vergogna: è piuttosto un imperio come quello dei bambini che ti vengono a chiedere di star con loro, di mollar le tue faccende e di stare ai loro comandi. Io non so come faccia, non credo che in lui e nei pochi altri che sono cosi sia una questione di capacità o di programma. Credo sia un dono, una proprietà minerale della voce. In questo senso, e solo in questo, ogni suo testo si presenta come un assoluto.
In questo senso, è straordinario vedere come lui, che è gran lettore, non faccia mai letteratura. O meglio la realizzi come inquietudine, non come dimora.
Cosi passano in controluce Ungaretti, i russi, anche Pasolini (quelle mamme…), ma nessuno ha troppo rilievo, sono ombre.
Resta nella media luce una poesia dal volto feriale, come una di quelle facce che vedi nei posti consueti (al bar, al supermercato) e che però ti sorprendono perché pare che dicano qualcosa di inaudito.