IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 14, ottobre 1998
saggi: lo Sguardo, pp. 52-66
Vincenzo Trione
Lo sguardo della ballerina blu
1. Le mille luci del tabarin
Di notte Parigi si trasforma in una gioiosa festa, in un’immensa tempesta di luci, di colori, di voci…
“Simbolo luminoso che affonda le proprie radici nel buio”, la città di Apollinaire e di Picasso è crocevia di cultura, di energie, di idee, di polemiche. Ville-visage-du- monde, tiene uniti con un unico filo impressionisti e post-impressionisti, fauves e cubisti. Paradiso della terra, capitale della modernità – di un’età, cioè, che ha qualcosa di simile ad un’alba, ad una féerie ‒, è il luogo della bellezza tecnologica. Gerusalemme di un mondo laico, – come ha scritto Macchia – assume “del mito i caratteri fondamentali: la natura collettiva, unitaria, misteriosa e irrazionale, il senso di fiducia e continuità nel tempo” i. E’ la vera “capitale dell’arte”, la “grande fiera” della pittura: agli Indépendants – afferma Apollinaire – si va da “ogni parte del mondo come si va a Lipsia per certe merci o come si andava una volta a Beaucaire o a Novogorod”ii.
È il 1906. Appena giunto da Firenze, il giovane Gino Severini resta colpito da quell’incredibile luccichio. Lo affascina la vita notturna; gli piace frequentare i ristoranti, i cabaret, i caffè, le sale da ballo, le “Boîtes de nuits”. Ogni sera compie una sorta di via crucis: dal Moulin de la Gallette al Bal Tabarin, e – dopo la mezzanotte – al Royal Souper e al Monico, che – a lungo – resterà il suo preferito “campo di battaglia”.
“Era una vita molto intensa e attiva, la mia, ma anche faticosa”, ricorderà più tardi l’artista, che si diverte a cantare e a ballare, a farsi travolgere dalla musica e dai ritornelli delle canzoni. Lo accompagnano, nelle sue scorribande notturne, gli amici di sempre: a cominciare dai compagni futuristi, che si appoggiano a lui nei loro primi soggiorni francesi.
Severini ama osservare i frequentatori dei locali: le “piccole operaie” e le poco esperte noceuses, le quali, con i loro fidanzati, invadono il Bal Tabarin, che – ogni sabato – diventa un tripudio di “bellezze poco vestite” e di invenzioni carnevalesche, con “carri pieni di belle donne mascherate […] con getto di coriandoli, nastrini multicolori”: una vera e propria “frenesia alimentata, evidentemente, dallo champagne” iii.
Il pittore resta colpito, in particolare, dal ritmo artificioso dei corpi, dalle curve flessuose prodotte dal movimento delle gambe delle ballerine, che si intrecciano in sfrenati balli come il can-can e, soprattutto, lo chaut, la danza in voga nei locali della Parigi di fine XIX secolo e inizio XX secolo, resa celebre da un quadro di Seurat.
Sono belle le chauteuses: ballando, alzano le loro gonne, e si trasfigurano in fasci di “luce vivissima”, in un “contrasto di bianchi e neri”, in uno “splendore di grigi, in tutte le gamme di violetti, verdi e blu” iv.
2. La poesia della danza
La danza, dunque. “Poesia liberata da ogni artificio”, sistema di gesti assoluti e senza scopo, capace di suscitare “tutta una plastica”, questa difficile “arte dei movimenti umani” come ha scritto Valéry nel suo Degas – genera “una serie di figure che si concatenano le une alle altre, e la cui frequenza produce una sorta di ebbrezza” – meravigliose immagini di vita, un’imprevista scrittura del corpo v.
Questa straordinaria scrittura – che aveva affascinato Seurat e Degas, Manet e Renoir, Toulouse-Lautrec e Picasso – va ripensata, e riproposta in chiave dinamico-simultanea.
Da una convinzione di questo tipo muove il lavoro Severini il quale, tra il 1910 e il 1913, dedicherà al tema dancing una ricca serie di opere. Tra di esse, si possono ricordare Ballerina ossessiva, Geroglifico dinamico del Bal Tabarin, La danza del Pan Pan al Monico, Danzatrice tra i tavoli, Ballerina del cabaret, Festa a Montmartre, Ballerina con paillettes, Forme di ballerina nella luce, Ballerine spagnole al Monico, Ballerine gialle, Ballerina blu, Ballerina bianca, Ballerine a Pigalle, Danza dell’orso=Barca a vela+Mazzo di fiori, Ballerina=Mare, Ballerina nella luce, Ballerina di cabaret, Ritmo di ballerina in blu, La danza dell’ora…
Tra queste tele, spicca, per intensità espressiva e per maturità stilistica, Ballerina blu, dipinta contemporaneamente a Ballerina bianca (ora al Civico Museo d’Arte Contemporanea, Collezione Jucker, Milano), forse verso la metà del 1912, nello studio parigino di Impasse de Guelma, a pochi passi da Place Pigalle, nello stesso edificio in cui vivono anche Braque, Dufy, Suzanne Valadon e suo figlio Utrillo.
Le due tele – esposte, per la prima volta, insieme con altre, in una mostra tenutasi al Teatro Costanzi di Roma nel 1913 – destano un profondo interesse nella critica e nel pubblico dell’epoca.
Ci sono, però, – va osservato – notevoli differenze. Rispetto a Ballerina bianca, Ballerina blu (conservata presso la Fondazione Salomon R. Guggenheim di Venezia, nella Collezione di Gianni Mattioli) è un quadro più “lento”, meno agitato, molto compatto. L’insistenza su una tonalità cromatica come il blu accentua il complessivo senso di calma: “le battute – come ha rilevato Marianne W. Martin – sono […] legate con enfasi dalle forme adeguatamente curve proprie dei movimenti di questo particolare tipo di danza” vi.
Non ci sono più le folle anonime e vocianti che avevano riempito quel travolgente omaggio all’eleganza della vita notturna di Parigi che è La danza del Pan Pan al Monico. Nella scena – ora – c’è un solo personaggio: una danzatrice dai capelli neri e dalle braccia nude, intenta a ballare un sensuale e solitario flamenco. Assorta, tiene ferma la testa, mentre agita intensamente il vestito.
Severini costruisce il quadro su un unico asse: pone al centro della rappresentazione la ballerina. Attua, tuttavia, diverse “deviazioni” rispetto all’ordine prospettico. Presenta, infatti, simultaneamente, “vari aspetti”, “vari simboli” – punti di vista plurimi, che si capovolgono come in uno specchio. Brucia le distanze; trasforma il primo piano in un’unica distesa di dettagli.
I riferimenti ambientali sono ridotti al minimo: collocati in lontananza, sono sullo sfondo. Il moto collettivo, i suoni e l’agitazione a stento si avvertono. La ville qui bouge – attraente e pulsante – si percepisce appena. Da alcuni accenni ci rendiamo conto che ci troviamo in un caffè: spuntano in alto, ai due lati estremi, un cameriere in giacca rossa, qualche tavolino imbandito con le tovaglie, un uomo e una donna vestiti alla moda. La realtà del tabarin, però, è appena allusa: sembra filtrata attraverso un caleidoscopio, in cui le impressioni si frantumano in infinite tessere, in un insieme ininterrotto di luci e di gesti diversi.
Si determina una sofisticata fusione, un continnum di energie: la danzatrice di flamenco non vive nel luogo, ma con il luogo. Le varie “sezioni” si compenetrano, si fondono; i diversi piani trasparenti sono sottoposti ad un “impulso” attivo di traslazione, che determina anomale geometrie.
Non c’è quiete o immobilità, ma solo rotazioni vertiginose, armonie impreviste.
A differenza di quanto accade nella maggior parte delle opere futuriste dell’epoca, non c’è un dinamismo “tecnologico”. Tutto è legato alle ragioni dell’anima. La danseuse blu si agita, seguendo i ritmi della musica, che le sconvolge i capelli, il corpo, il vestito
3. Scene luminose
La scena è estremamente precaria, quasi da istantanea fotografica. Se in Ballerine gialle si sofferma sulle suggestioni che vengono alla pittura da “versanti scientifici, parascientifici e persino esoterici” vii, qui Severini punta a cogliere un istante preciso del flamenco. Fissa il proprio sguardo sulle movenze della danzatrice; le ferma in un’unica posa. In anticipo sul Carrà del manifesto del 1913 su La pittura dei suoni rumori e odori, sente la musica come movimento; vuole dipingere i suoni. Del resto, – scrive – i rumori “rientrano nell’elemento ‘ambiente’ e possono essere tradotti in forme” viii…
Su queste basi nasce una figurazione antigraziosa, ricca di riferimenti, che vanno dalle “analogie letterarie” di Marinetti ai versi di Mallarmé, dalla filosofia unanimista di Romains a Loïe Fuller, Suzanne Meryen e M.me Sehary-Djheli.
Ricollegandosi alle idee di Romains, Severini si fa – baudelarianamente – pittore della vita moderna, della joie de vivre. La modernità cui guarda, però, è ben diversa da quella inseguita dagli amici rimasti in Italia.
Non c’è esaltazione, esuberanza, violenza. In polemica con il Futurismo “nato a Milano”, influenzato dallo Jugendstil e dalla pittura di Previati e di Segantini, egli – da promotore del Futurismo “nato a Montmartre” – si richiama al Neo-impressionismo di Seurat e alle opere di Van Gogh, di Toulouse- Lautrec e di Degas, per elaborare una pittura aerea, improntata a una notevole vitalità espressiva.
Mentre Boccioni e Carrà sono “profondi”, ansiosi e cupi, alla ricerca di profonde “risonanze psichiche”, egli – come ha osservato Barilli – è cristallino, luccicante, schiacciato, “estroverso, […] luminoso e solare” ix.
Nella Ballerina blu gli impulsi espressivi sono raffreddati in nitide decorazioni.
“A me – dichiarerà l’artista – premeva di arrivare ad una libertà cromatica esperibile con la tecnica coloristica di Seurat e dei neo-impressionisti, e pensavo che da questi avrei dedotta la forma d’arte che mi conviene” x.
Muovendo dalla lezione della pittura francese di fine secolo, Severini cerca di afferrare il senso profondo della realité danseuse. A tal fine, ricorre al metodo – di origine post-impressionista – della scomposizione del corpo e dell’ambiente circostante in un indomito zig zag di profili, in tanti tasselli. Costruisce la sua tela sul ritmo, sul volume, sullo “spazio a tre dimensioni”, sul colore e sul disegno “considerati in se stessi”, del tutto liberi da ogni confronto con le cose reali.
4. Movimenti “sdoppiati”
Se Degas aveva bloccato la “ginnastica” delle danzatrici in alcune pose esemplari, Severini cerca di andare oltre. Non vede a “occhio nudo”. A differenza degli impressionisti e dei post-impressionisti, che si erano limitati ad accogliere la mutevolezza della luce, cerca di afferrare la realtà “eraclitea” e inebriante del ballo – la osserva con occhio irrequieto.
“Le ballerine che facevo erano mie“, affermerà xi. Per lui, quel che conta è lo “spostamento dei corpi”: la loro capacità di generare moti imprevedibili e onde visive, del tutto libere da ogni vincolo naturalistico.
Attraversata dal tumulto del flamenco, la danseuse blu è in assoluta libertà: in preda all’élan vital, emana linee di forza, analoghe a quelle ottenute da Boccioni ne La Risata.
Si rivelano esemplari, da questo punto di vista, le osservazioni fatte da Roberto Longhi nel suo storico saggio del 1913 su I pittori futuristi. Anziché squadernare “tutte le superfici di un corpo”, Severini – scrive Longhi, che si riferisce, in particolare, a Ballerina di chahut – ci fa volteggiare dinanzi agli occhi il corpo stesso, “presentandoci tante forme – diverse tutte e legate. […]. Egli sa disporre armonicamente in vista di un intrico chiaro e complesso”. Esibisce i cambi di posizione della donna, in modo da offrire un’ “allitterazione tanto gradevole come quella che ci viene da una semplice fuga di archi slanciati” xii.
Nascono, cosi, strane ondosità concentriche, un’ardita “armonia lineare” tra i piani. A trionfare è la geometria di linee curve che sono la “viva espressione dell’idea, la vera impressione della vita” xiii.
Il tutto – rileva ancora Longhi – è governato da una rara capacità di salvaguardare ogni dettaglio: “il plissé di una sottoveste, lo smerlo di un jabot, le curve esatte archicentriche delle fossette sul mento o sulle guance, il drizzarsi prospettico del cerchietto sul tacco, lo sfogliarsi della veste scartocciata, il cilindrio concavo-convesso dei riccioli – ogni curva è incisa con acuzie […], e s’incassa nel contorno nitido, non sfilato dal colore disteso” xiv.
La medesima cura per i particolari caratterizza anche Ballerina blu. In linea con i “consigli” di Apollinaire e con la ricerca dei pittori cubisti, Severini – come emerge da quest’opera si dimostra attento ad ogni minimo elemento; lavora per piani sovrapposti, esaltando la sinuosità dei contorni. A differenza di quanto fa il suo “nume tutelare” Balla, non ripete l’immagine nelle sue varie “tappe”, ma disarticola la figura in tante stazioni: la “sdoppia” xv.
Si serve, insomma, delle conquiste del Cubismo sintetico come “mezzo di espressione di movimento” xvi. In consonanza con la poetica di Delaunay (frequentato a partire dal 1909), e in anticipo sui vorticisti inglesi, adotta una spazialità sghemba. Superata la fase dell’ “immaginazione a mosaico”, propria delle danzatrici dipinte tra il 1911 e l’inizio del 1912 (si pensi a Ballerina ossessiva), vuole imprimere azione alla rigidità delle opere di Picasso e di Braque. “Io – afferma ne La vita di un pittore – pensavo che […] con le risorse della tecnica neo-impressionistica largamente intesa, e cioè estesa alla forma, potevo raggiungere degli effetti di movimento mai ancora tentati e un lirismo più grande” xvii.
Il moto evocato nella tela non è dato dai passi della ballerina blu – che compongono una griglia statica di segmenti -, ma dalle tacche di colori e di tasselli geometrici che si accostano tra di loro, senza mai mescolarsi. Si tratta di un moto illusorio, teso a scompaginare il volto della danzatrice nel suo nucleo intimo.
Alla forma statica si contrappone un “organismo” antropomorfo estremamente mobile – colto nel suo dispiegato dinamismo -, che sviluppa una serie di contorni provvisori.
“L’unità di tempo e di luogo nel soggetto” è stata violata. Ad emergere è un’immagine bidimensionale, basata sullo scontro tra gli angoli, gli spigoli, i rettangoli e le diagonali: figure unite nello spazio della tela cosi come lo sono nella dimensione della memoria.
Distante dalla solidità boccioniana e dalla monumentalità di stampo carraiano, Severini – ha rilevato Dorfles – riesce, in questo modo, a far convivere la simultaneità futurista con la moltiplicazione dei punti di vista propria dell’Orfismo e con una efficace – ma ancora ingenua‒ “stroboscopizzazione” degli arti, degli indumenti e dell’ambiente circostante xviii. Tale tecnica compositiva solo nel 1916 sarà ripresa da Duchamp nel Nu descendant l’escalier.
5. Una pittura di superficie
Il ballo della danzatrice blu – a ben guardare – non esprime una realtà “di fatto”: è una finzione, un artificio. Riguarda solo l’apparire esterno delle cose.
Il soggetto è considerato un elemento non determinante. La ballerina – agli occhi di Severini – non è solo il simbolo del mondo moderno: è una figura capace di generare un moto imprevedibile. E’ un “pretesto poetico” di espressione. Non è una donna, ma una creatura incomparabile, diafana.
Dipingendo questa creatura, il pittore – come ha scritto Maritain – dà vita ad una tela che – essa stessa – è una “danza di linee e di colori” xix.
La scomposizione del volto e dell’abito pone in evidenza una serie di traiettorie e di piani, che si prolungano, si agitano e si trasformano in ulteriori forme. Ne risulta un vivace arabesco, in cui i “dettagli” descrittivi dello sfondo dialogano con i semicerchi e le diagonali in primo piano.
La visione è alleggerita, sdrammatizzata. Il ritmo è chiaro, quasi volatile, “tendente alla neutralità dell’artificiale” (Boatto). Sulla rappresentazione sembra cadere un fascio di luce proveniente dall’esterno, che conferisce unità alla scena. Tale raggio smaterializza il corpo della danzatrice in “meravigliosi caleidoscopi di giovinezza e di colore che raggiungono una vera poesia xx.
“Io – spiegherà più tardi Severini – volevo, restando nello spirito della pittura, portare le immagini oltre la metafora nel più elevato piano poetico. Tecnicamente realizzavo queste immagini con forme quasi interamente geometriche e con i colori del prisma. Ogni forma andava dal blu al violetto all’arancio o al rosso attraverso le gradazioni di verde, giallo giallo-arancio. Intendevo questi colori in quanto colori-luce, e non colori pigmentari” xxi.
Memore delle esperienze di Delaunay, Severini lavora sulle infinite potenzialità della luce. La ballerina produce sottili lampi; gli altri “dati” che spuntano nella tela, come in un can-can, creano un’atmosfera esaltante, che ricorda da vicino quelle dei music-hall.
C’è – qui – una assoluta mancanza di “preoccupazioni plastiche”. Tutto si svolge sulla superficie del quadro: i colori, i volumi, i piani e la luce sono l’unica stoffa dell’opera. I pigmenti cromatici sono forma e oggetto della composizione.
Non c’è un corpo, ma solo alcune schegge in contrasto simultaneo. Partito con l’intenzione di offrire allo spettatore la sintesi delle “potenzialità cinetiche” del soggetto, Severini riesce a depurare la forma.
Sensibile ai richiami della dolcezza dei toni, “ingabbia” le scene in moti leggeri, musicali. Dà vita ad una costruzione fondata esclusivamente sull’uso dei colori primari del prisma (il blu e il rosso). Esemplare, in tal senso, il vestito increspato della ballerina, composto da deliziose miscele di macchie, scintillanti come lapislazzuli.
6. Ineffabile e concreto
Eppure, il pittore toscano non è mai fino in fondo “astratto”. Resta, per certi versi legato alla rigidità della figurazione. La sua è ancora un’arte di “racconto”, volta ad esprimere la realtà. In consonanza con Delaunay, egli preferisce partire sempre dal vero… per percepirlo, poi, in termini di costruzione pittorica pura, di pulizia formale.
Estrae dalla realtà alcune “suggestioni”, che riporta nell’opera, attento a far convivere ineffabile e concreto. Deforma la verità; la trasfigura; la trasgredisce… ma non ne prescinde.
La sua immaginazione è fortemente legata alle cose del mondo. Per questa ragione, spesso, nelle sue opere del periodo futurista, inserisce insegne di negozi e altri oggetti immediatamente “riconoscibili”. Si pensi al celebre Ritratto di Marinetti, dove sono applicati baffi veri, e ad alcuni quadri dedicati alle ballerine (Ballerina a Pigalle, ad esempio), decorati con paillettes.
“Il contrasto tra un elemento realistico […] ed altri elementi portati in un piano di assoluta astrazione genera, come tutti i contrasti, dinamismo e vita” xxii.
Anche nella Ballerina blu sono incollate sull’abito della danzatrice delle paillettes, secondo la tecnica del collage, sperimentata proprio in quei mesi da Picasso e da Braque.
Nella sua autobiografia, però, Severini preciserà che la pratica del collage gli era stata suggerita da Apollinaire, il quale, nel corso di una conversazione, gli aveva ricordato l’abitudine dei pittori primitivi italiani, che erano soliti inserire nelle loro opere elementi di “vera realtà” – gemme preziose e oggetti lignei -, che contribuivano ad accrescere la dinamica generale della rappresentazione. Apollinaire – racconterà “mi portò l’esempio di un San Pietro esposto all’Accademia di Brera di Milano [il Trittico Camerino di Carlo Crivelli del 1482], che ha in mano delle chiavi vere, e di altri santi con altri oggetti senza contare le aureole fatte con vere pietre preziose e vere perle” xxiii.
Forte delle scoperte dei maestri del Trecento e del Quattrocento, e delle invenzioni di Picasso e di Braque, l’artista parigino d’adozione inserisce nella sua tela elementi non-pittorici come i lustrini variopinti. Incrementa, cosi, la luminosità dell’insieme. A differenza dei pittori cubisti, non si propone ancora di costruire un quadro-oggetto. In possesso di una notevole autonomia stilistica, è sensibile ai valori “affabulatori” della pittura – fedele ai principi dinamici su cui si basa la poetica futurista.
“Ho fatto – annoterà in seguito – un sufficiente numero di quadri ispirati dal movimento […]. Ispirati dal movimento non vuol dire che io mi proponessi di dare l’illusione ottica di una cosa o di un corpo che si sposta nello spazio; il mio scopo era di trarre partito da quella materia per realizzare un insieme ancor più nuovo e vivente” xxiv.
Servendosi delle paillettes, inoltre, Severini dà ordine ed equilibrio al quadro. Da erede di Giotto e di Piero della Francesca, e da allievo di Seurat, in possesso di un profondo senso della misura, con scrupolo e applicazione, punta a cristallizzare ogni umore nel sistema compositivo.
L’energia non va mai oltre la linea… nemmeno nei punti più “aggressivi” della tela. Il gesto del flamenco è contenuto in un’asciutta e limpida griglia.
Lontano dalla violenza barbarica di Boccioni e dalla rude plasticità di Carrà, l’autore della Danza del Pan Pan al Monico è – anche in un’opera dionisiaca come la Ballerina blu – un pittore raffinato, sobrio, intimamente “francese”, attento a un rigore di costruzione che – per dirla con Calvesi – “non è dettato cerebrale, ma risponde a un istintivo bisogno […] di chiarezza”, di controllo della direzionalità delle rette e delle curve. La geometria – lo dice il vestito “squadrato” della danzatrice – è sentita da lui come uno scheletro, “un’ossatura portante”, una “matrice generante” xxv.
7. Istinto e ragione
Nel delineare la fisionomia della ballerina, Severini cerca di rappresentare insieme l’istintività del corpo e la forza della ragione espressa dagli occhi. Da una parte, il fisico, che, in preda ad una furia, diviene evanescente: gli arti sembrano “evaporare”, quasi scompaiono; dall’altra parte, gli occhi – tra i pochi elementi riconoscibili del quadro.
Nel volto, infatti, si distinguono i capelli neri e vaporosi, la bocca coperta di rossetto, il naso geometrico e… un occhio contornato da un alone leggero di trucco. Nella parte alta della tela questa immagine in movimento è ripetuta in chiave sintetica. Non ci sono, però, la bocca e il mento, ma solo il naso “tagliato” e l’occhio.
Travolta da una danza dionisiaca, la ballerina non apre le palpebre. Seguendo le voci della musica, non vuole guardare ciò che le sta intorno. Le piace essere guardata – attirare su di sè la nostra attenzione. Con il capo appena reclinato – quasi da manichino -, non si lascia andare alla folie du voir. Il suo non è un percepire con amore, né un osservare bramoso, ma è un vedere molto composto.
Il suo gesto è di attesa, di sospensione: nasconde tanti pensieri. Esprime sorpresa, disincanto. E’ un guardare “avvertito”, meditato – vivo e, al tempo stesso, passivo.
Come una sfinge di stampo metafisico, la ballerina assume una posa equilibrata e limpida. Non lascia trapelare i propri stati d’animo: resta in silenzio, senza batter ciglio, con un velo di malinconia che pare contrastare con lo sconvolgimento del ballo.
Ad un tratto, però, l’occhio si apre… Sembra invadere l’intera superficie della tela.
Severini non si limita a disegnare due occhi. Arriva addirittura a trasformare l’abito blu della ballerina in un insieme di piccole mezze lune, che somigliano a tante sottili palpebre colorate, le quali, disposte ad entrare in azione dinanzi alle più nascoste sollecitazioni – di volta in volta si spalancano, si socchiudono, si illuminano – sono sempre ‘all’erta’. C’è una assoluta contemporaneità di istanti percettivi. E’ come se ci fossero tanti occhi puntati verso lo spettatore, pronti a trasmettere luci e oscurità. Possono scegliere – con rapidità e discrezione infinite ‒ scene del visibile.
Soffermandosi sugli occhi e sul corpo, il pittore riesce perfettamente nel proprio compito. Stabilisce un sottile equilibrio tra ragione e istinto. Fa incontrare – per riprendere un’idea contenuta nel suo manifesto su Le grand art religieux du XX siècle redatto nel 1913 (ma pubblicato solo nel 1961) – “forme emotive” e “forme concepite”. Tale incontro ha osservato Menna – conferisce alla tela “una struttura sempre calcolata, a volte non immune da qualche freddezza” xxvi.
Severini – come si legge in una lettera inviata a Soffici nel settembre del 1913 – mira a conciliare “l’esterno e l’interno delle cose, la forma concepita per se stessa e la forma emotiva” xxvii. Aspira a far convivere espressione “autentica” e rigorismo compositivo in una pittura che si offre “come un istinto spirituale impregnato di ragione, come una spontaneità calcolatrice” xxviii.
L’arte moderna – affermerà – deve essere Ingres più Delacroix – raffinatezza più vivacità. “Insomma, un realismo lirico, che ritroviamo sulla linea dei romantici, penetrato di una classicità […] sostanziale, intrinseca” xxix.
8. Ritmi colorati
Il corpo e gli occhi della danseuse blu, poi, si dissolveranno, si sgretoleranno… diverranno un puro segno in Ritmo della ballerina in blu (1912).
Convinto che ogni pittore debba lavorare “seguendo le regole e le leggi che lo spirito ha gradualmente scoperto e formulato”, e appassionato cultore del ritratto come genere pittorico, Severini non si propone più di descrivere un determinato personaggio. Punta a definire autonomi “equivalenti astratti”.
Sull’onda delle Compenetrazioni iridescenti di Balla, concepisce ‒ lo scrive nell’“autopresentazione” della sua mostra tenutasi nel 1913 a Londra presso la Marlborough Gallery ‒ l’astrazione quale esigenza interiore. Vuole – ora – solo alludere all’esaltante ritmo del ballo. Superata la “barriera” del disegno, dipinge sulla tela larghi piani di colori, con diversi gradi di intensità, disposti in una successione incalzante. Cerca di mediare tra le tonalità più chiare e i complementari. Suscita, in tal modo, la sensazione della luce, dà alla composizione un impulso dinamico puro. Ogni “gerarchia” figurativa è assorbita da una spirale, da un ritmo cromatico circolare.
Le sue tele dipinte nel corso del 1913 – si pensi, in particolare, a Madre=Ballerina, Ballerina nella luce e alle Espansioni della luce – finiscono con il somigliare a scacchiere limpide e splendenti, percorse da continue agitazioni.
Il tema della danza è ridotto a un semplice spunto metaforico; è ripensato in maniera profondamente astratta. La pittura – analogamente a quanto accade nei contemporanei quadri di Kupka – tende a divenire colore liberato dalla forma. Ogni riferimento allo spazio-ambiente di origine futurista è definitivamente annullato.
Vi sono solo esplosioni di pennellate di colore-luce, che fanno e disfano i volumi geometrici. Le varie “impronte” si compenetrano secondo un ritmo rapido, evocando la trasparenza dei prismi: si scorporano, assorbite dal vortice del dinamismo universale.
Le stesure piatte sono sostituite da un tessuto di tocchi che scolorano l’uno nell’altro.
La struttura dinamica, che aveva caratterizzato le prime opere futuriste, è divisa dalla materia. Non ci sono linee, ma solo un fitto pulviscolo. Un “impulso di energia” sembra spingere le immagini oltre i limiti della cornice… oltre lo sguardo.
NOTE
i G. Macchia, Il mito di Parigi, Torino, 1965, p. 341.
ii G. Apollinaire, Les arts. Une conférence de Fernand Léger, in “Paris-Journal” del 13 maggio 1914 (in Euvres en prose, textes établis, présentes et annotés par P. Caizergues et M. Décaudin, II vol., Paris, 1991, p. 698)
iii G. Severini, La vita di un pittore, pref. F. Menna, Milano, 1983, p. 59.
iv Ibidem, p.60.
v P. Valéry, Degas Danza Disegno, a cura di B. Dal Fabbro, trad. it., Milano, 1980, pp. 29-35.
vi M.W. Martin, Futurist Art and Theory, 1909-1915, Oxford, p. 139
vii D. Fonti, Severini (supplemento ad “Art Dossier”, n. 108), Firenze 1996, p. 14.
viii G. Severini, Introduction al catalogo della mostra The Futurist Painter Severini exhibits his latest works, Marlborough Gallery, London, aprile 1913 (in Archivi del Futurismo, a cura di M. Drudi Gambillo e T. Fiori, pref. G.C. Argan, I vol., Roma, 1958, p. 115)
ix R. Barilli, L’arte contemporanea, Milano (1988), p. 140.
x G. Severini, La vita di un pittore, cit., pp. 58-59.
xi Ibidem, p. 115.
xii R. Longhi, I pittori futuristi, in “La Voce”, V (1913), n. 15 (in Scritti giovanili, Firenze, 1980, p. 52).
xiii G. Severini, Dal Cubismo al Classicismo, a cura di E. Pontiggia, Milano, 1997, p. 73.
xiv R. Longhi, I pittori futuristi, p. 52.
xv Cfr. P. Fossati, Storie di figure e di immagini, Torino, 1995, p. 51 e segg.
xvi P. Rynalds, Gino Severini, scheda in AA.VV., Capolavori della Collezione Gianni Mattioli, a cura di L. Mattioli Rossi ed E. Braun, Milano, 1997, p. 94
xvii G. Severini, La vita di un pittore, cit., p. 59.
xviii G. Dorfles, Severini, in AA. VV., Severini, a cura di G. Dorfles e P.L. Siena, Milano, 1987, p. 12.
xix J. Maritain, Gino Severini (1930), in Frontiere della poesia e altri saggi, trad. it., Brescia, 1981, p. 85.
xx Ibidem.
xxi G. Severini, La vita di un pittore, cit., pp. 154-155
xxii Ibidem, p.71.
xxiii Ibidem, p. 131.
xxiv Ibidem, pp. 115-116.
xxv M. Calvesi, La regola di Severini, in AA.VV., Gino Severini dal 1916 al 1936, a cura di M. Vescovo, Torino, 1987, p. 16.
xxvi F. Menna, Severini tra Futurismo e Cubismo (1961), in Quadro critico, Roma, 1982, p. 137.
xxvii Severini invia la lettera a Soffici da Pienza il 27 settembre 1913 (in Archivi del Futurismo, I vol., cit., p. 292).
xxviii J. Maritain, Gino Severini, cit., pp. 89-90.
xxix G. Severini, La vita di un pittore, cit., p. 208.