IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 14, ottobre 1998
poesia e critica, pp. 81-85

Gianfranco Lauretano
da “Ortus Exitiosus”

Lasciami scrivere, sono stanco
di assenze; mi hanno
educato a luoghi altri
e strani, la mia luce
è la miseria del prisma
tra colore e colore si apre
il baratro della perdita.
Occorreva cosi poco invece
per cantare, è bastato
abbandonare i calcoli
raccogliere le ore
rendere ogni molecola
del corpo unica e salva.

Inizia cosi il mattino
grande della scrittura
la croce, i passi e passi
l’abbandono: metto
un piede sull’asfalto
la pagina si leva
e in questa metà, quando
neanche la fine scarlatta
senza sottintesi, la fine
che tuona nelle arterie
può fermarmi, quando
il pensare è incompiuto
la prendo la porto fuori
come Braque coi suoi quadri
a vedere se regge. Fuori
dove urlano ai lampioni.
dopo il furto della luna
Ti torturano sotto i nostri
occhi, macchine vastissime
asportano l’encefalo e ci
restituiscono un teschio.
Fuori, a dire la fatica
inascoltata dei maestri…

È la nottata dei ricordi
freddi, secca la voce
s’inceppa e s’inceppano
le parole. C’è qualcuno
se solo prestassi ascolto
(la fantasia dell’ascolto!)
riconoscerei sulla piazza
almeno un volto. Cosi
sto zitto, per che cosa
scavare se il fondo
è nero e lo so già?

Mi incammino smarrito
per le persone
– il nascosto fondamento –
dalle finestre compaiono
bambini a decine con facce
da diavoli e sghignazzano
uno per ogni finestra
la via è abitata solo da loro
il globo è una faccia
paffuta che ghigna.
A terra. I piedi
su una grata alta sul vuoto
mi sospende, sento quasi
la vertigine… un barattolo
dallo stomaco contorto
una riga di acqua gialla
il catrame, il fumo di cui
si avverte solo il puzzo…
vorrei sfrecciasse un topo
sarebbe una promessa
in mezzo a questo scempio.

Per questo tagliano la città
sottoterra, per occludersi
al cielo? Le scale luride
i muri inzozzati… tutto
il cosmo ride ed è sporco
come i visceri cittadini.

Ma ecco lo squarcio
ciò che si muove
se guardo si svela
la metropolitana si fa
cuore, gli uomini globuli
dentro fuori dentro fuori
non si capisce quale
silenzio si ascolti, tacciono
non solo i rumori
anche la musica.
Cala il sipario sulla ferita?

Le tempie sono tamburi
le pulsazioni impietose
riempiono l’oscurità. 
C’è un cuore. Lo stanno
fabbricando. Lo avviano…
Scorrono le luci
quadrate dei vagoni
la scia diventa il liquido
con dietro le ombre
scorre il lamento lungo
della consegna, di quelli
dati ai chirurghi troppo
bianchi. E i bambini
ridono ancora, la voce
è acuta, è una lama!
Ridono perché il cuore
batte, sono invincibili!
“C’è un lago, un lago nero
nero” il passaggio
disatteso, il tunnel
l’inquietudine fatta incubo
lo schifo di un ricordo
consegnato a quelli dopo
le mamme assassine.

“Nessuno ha voluto
aspettarmi, la medaglia
spezzata è stata ricomposta
di nascosto, al più presto
perché non vedessero
gli esecutori e uscire
dall’acqua è corto
la terra come la sabbia
mi ha masticato, strumenti
ghiacci e duri di metallo
venivano sempre più vicini
hanno stretto la casa
schiacciato la speranza
dei miei calci nel muro di pelle
e il freddo è stato svelto.
Non è morto l’assenso però
la charis, l’incontro
calato sopra due desideri…
questa notizia continuo a recare
della fila di altri piantati
nel costato a mia madre
quando m’ha tolto il suo seno.
Reggimenti battono forte
il percorso alle spalle
qualcuno ha gioito
voi adesso cadete!”

Il mio ginocchio si piega
e il desiderio vi abbraccia
soldati tutti diversi
di una guerra muta.
Sacrificio. Ecco la parola
che risolve, cadere e cadere
il compito è già deciso.
E poi stringerci come
le alghe quando arriva l’onda
che si muovono assieme
dalle caverne la vecchia
solitudine scapperà via
la vipera incalzata
dal bastone scapperà
e se cammino e le foglie
si posano sugli occhi
mi ammanto dell’autunno
di questo sonno strano
che stiamo attraversando…