IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 13, febbraio 1998
poesia e critica, pp. 91-96
commento critico
Marco Berisso
Nutrice
I testi che vengono qui pubblicati, integramente (Tre variazioni sulla nascita) e per estratti (Gli angoli della bocca, lungo poemetto del quale qui appaiono due brani della prima parte) rappresentano due tappe di una specie di romanzo (auto)biografico en poème, dedicate nell’ordine alla nascita e all’adolescenza. Evidente è la coesione tra i due episodi, tanto da potersi permettere forzando d’un minimo l’autonomia delle parti addirittura una lettura quasi ‘romanzesca’: coesione stilistica, tanto per il linguaggio, che rimbalza continuamente tra registri difformi e spesso, almeno all’apparenza, inconciliabili, quanto per i fitti richiami intertestuali, in particolare a Dante, ma anche coesione di temi, in primo luogo quello (abituale nella Lo Russo, sino a diventare caratterizzante) della corporeità, non tanto intesa come stato dato una volta per tutte, quanto, e piuttosto, come progressiva presa di coscienza della sua materialità (e ci si trova di fronte in questo senso, anche se può sembrare stucca movenza topica da introduzione, ad una tappa ulteriormente perfezionata di un percorso poetico coerente ormai decennale). In questa direzione la terza delle Variazioni è davvero esemplare. L’attesa del battesimo e della conseguente entrata nella comunità cattolica è vissuta come mortificazione della carne, voluttà del martirio, patimento e insieme “godimento” e “santa allegrezza” a partire dall’originario esempio del Battista (che “si nutriva di locuste e di miele selvatico”, Matth. 3 4: trasformato, appunto godutamente, in “leccavo miele, sgranocchiavo locuste), secondo uno schema d’ascendenza barocca al quale Rosaria Lo Russo è, letteralmente, devota sin dal suo primo volume, L’Estro. Ma l’incidente (l’essere fatta femmina), espresso attraverso una metafora di dolore fisico “Poi presi una storta, / e fui smidollata / -smorta-” blocca l’estasi per ricondurla all’abnorme metamorfosi del finale in cui il “forte odore di corpo” delude ogni aspettativa e si impone con il suo ingombro .
Proprio la metamorfosi ed il travestimento sono le cifre con cui la corporeità si manifesta in questi testi: la nascita (che è “guaio” e “tosco” vischioso, e che però, nella stupenda seconda Variazione, cambia anche la prospettiva del reale, fa sì che quasi d’improvviso ‘qualcosa’ che prima non c’era adesso ci sia, identificabile, ingombrante: “allor conobbi la vera identità dell’ospite”), l’alimentazione, la crescita, sono tutti momenti psichici e fisiologici attraverso i quali il corpo originario, la materia, a partire dall’embrione, muta senza fine la propria identità. In un passo qui non antologizzato degli Angoli della bocca la compresenza e conflittualità delle due culture gastronomiche, quella toscana e quella calabrese (che sono poi, evidentemente, culture in assoluto, e anche figurazioni psichiche genitoriali) veniva esemplificata attraverso due richiami danteschi (Inf. XXV 69. “Vedi che già non se’ né due né uno”, e XXX 41, “falsificando sé in altrui forma”, entrambi però voltati alla prima persona singolare) che ponevano al centro dell’attenzione proprio il processo del mutamento e l’assunzione su di sé di un’identità estranea, aliena, còlta però nel divenire, quando appunto non si è più “uno non si è ancora “due”. Falsificare sé in altrui forma, se riferito all’alimentazione, alla vis vegetetativa (e proprio Vegetativa è il titolo. duplicato, del testo con cui si aprono le due parti degli Angoli della bocca, è l’esatto contrario del vulgato (sino a diventar volgare) “tu sei quello che mangi”. Rosaria Lo Russo, al contrario, ci dice che noi siamo quello che non mangiamo (a voce, presentando il poemetto in un incontro letterario a Reggio Emilia, lo ha definito precisamente “un testo sull’insorgere dell’anoressia”), perché il cibo che ingeriamo ha un nome e un cognome, una tradizione storica e culturale, è una figura parentale che ci condiziona e snerva con il suo prepotere. Assimilando (‘rendendo simile’, proprio etimologicamente) il cibo, insomma, perdiamo la nostra figura per assumerne altre, ci falsifichiamo in altrui forma.
Ma di queste premesse non è affatto conseguenza banale la ricerca dell’incorporeo, del disincarnato: in questo senso anzi, la lingua letteraria, lo scrivere, diventano l’unico mezzo con cui il cibo può essere accumulato e gestito sino a divenire tollerabile (Francesco Stella, introducendo Vrusciamundo’ aveva puntato l’attenzione del lettore proprio sulla metamorfosi linguistica del corpo”). La scrittura assume un ruolo fisiologico: “le parole sono un moto che va / dall’interno / verso l’esterno”, si dice in conclusione de La parte offesa, ma altrove (nel finale della sezione Piano sequenza di cucina toscana con ben tetragona donna) si completerà il processo affermando che “mangiare e bere sono moti che vanno dall’esterno / verso l’interno”: e dunque quelle parole che sole riescono a esorcizzare il cibo, proprio dal cibo prendono la loro forza. Le cicatrici (le ulcere?) più evidenti lasciate da questa accumulazione che è anche teatro (“boccascena” in cui Rosi recita la salottiera, verdiana e decrepita contessa Maffei, sino ad essere, simbolicamente, svuotata) sono, come spesso accade in poesia, di tipo linguistico e metrico. Procedendo su una linea già in nuce nelle prime raccolte, ma evidentissima nelle ultime prove (penso soprattutto alla magnifica prosa barocca della Sequenza orante e a Sanfredianina), Rosaria Lo Russo dimostra qui la sua abilità estrema nello sfruttare tutti i registri. Si può così ritrovare il parlato, condotto sino alla pura onomatopea di un verso come “uh! pissi pissi bau bau” o, più spesso, all’inflessione dialettale e vernacolare (a quest’area sarannno da ricondurre residui di pronuncia orale come “va’ ‘ia va’ ‘ia” o toscanismi come ”a scaniconi”, cioè ‘ciondoloni’, entrambi in Recita di fine anno…), ma anche, e solo apparentemente in opposizione, il linguaggio più tradizionalmente letterario, scoperto e riprodotto in tutte le sue inflessioni con la pervicacia dell’archeologo.
Ma la letterarietà non è solo presenza lessicale (ad esempio “[…] rilascia alla musica/ quel bronco abbandonato / perché ancora ondeggi pulsi s’attorca”, dalla prima Variazione, o “Infarinato capo di penitente vèglia / indi balzai sul boccascena” della Recita di fine anno. ..: e si potrebbe campionare ancora a piacere): più spesso, anzi, si manifesta in forma di abilissimi relitti metrici. Per citare un esempio eclatante, proprio perché rielabora su misure ‘regolate’ materiali del parlato (con il termine “maschi” che ha una sfumatura quasi gergale e indubbiamente prepuberale), in un distico come “l’acclamata Claretta fra grida e schiamazzi / delle compagne tutte e anche de’ maschi” contano forse più il precipitare dell’alessandrino leggermente irregolare nel regolarissimo endecasillabo e l’assonanza forte in punta di versi che un calco pure macroscopico, del linguaggio poetico come l’elisione in “de’ maschi”. Anche la metrica ha però il suo versante ‘basso’, colloquiale, e si avranno così le sequenze di versi su un’unica rima facile, retaggio di quelle cantilene e filastrocca che comunque fanno parte, come il cibo, della cultura antropologica al centro di questi testi. La voracità linguistica può poi arrivare sino alla neoformazione e anche al neologismo: avremo così, da un lato un “indementa” di sapore non per caso dantesco; dall’altro il “divertinga” di La parte offesa (cioè una casalinga che alle gioie della casa ne preferisce ben altre) o il “tranquirisce” di Com’è com’è questo dimagrimento? (dal nome di un medicinale: il significato e ‘tranquillizzarsi con mezzi artificiali’). La lingua, insomma, una volta consumati tutti i materiali si attrezza per costruirne dei nuovi, per soddisfare la propria ingordigia.
Perché un’altra importante questione posta al lettore da questi testi è il rapporto tra creazione linguistica, cultura materiale e quelle che (impropriamente) ho prima chiamato figurazioni psichiche. Ed è proprio riferendolo a questo nesso che si spiega il reticolo di presenze dantesche a cui accennavo all’inizio.
La Commedia (ma anche la Vita nova: “Così furon distrutti li miei spirti /tutti tranne li spiriti del viso – facciona di luna –” che prima leggermente rielabora citando, e poi pesantemente abbassa, il pallore di un noto passo dalla prosa del “gabbo”) fornisce a queste poesie un numero impressionante di termini, immagini e versi interi. Limitandoci ai casi più evidenti, la nascita della seconda Variazione è orchestrata in parallelo sull’episodio della selva dei suicidi di Inf. XIII, da cui desume tanto l’esplicita citazione iniziale (“Perché mi schiante?”) quanto l’episodio conclusivo del canto (vv 109-151) condensato dalla Lo Russo ai vv. 5-9, mantenendone i soli elementi principali (le due anime “esonerate dal Colpo” e “disseminate” che “abbandonano tracce di rosso”, i “pruni”, ricordo lessicale del “gran pruno” di Inf. XIII 32) ma credo non per questo meno riconoscibili. Nascita e morte volontaria, insomma, vengono equiparate: lo schianto del ramo di Pier della Vigna e il “tosco” (che è sempre parola di Inf. XIII, stecchi e non tosco” al v. 6) del rompersi delle acque sembra produrre lo stesso effetto (di là il sangue, di qua “[…] cascate di stupore / imperlato di muco e sangue”): la “mesta/ selva” infernale riverbera il suo agghiacciante terrore sulla sala-parto in cui “belle mascherine / verdi” agevolano una nascita alla quale si vorrebbe “segretamente” sostituire una rapida morte.
Ma torniamo al punto: perché Dante? C’è un passo, notissimo, dell’avvio del De vulgari eloquentia (I i 2) in cui Dante distingue tra lingua regolata, il latino innanzi tutto, affermando che il volgare è (cito la traduzione di Mengaldo) “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando incominciano ad articolare i suoni; o come si può dire più in breve, definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola”. La vera novità di Dante è che qui, pur riprendendo una definizione diffusa all’epoca, pone la nutrice nel luogo ove tradizionalmente stava semmai la madre. Per quell’equazione tra cibo e linguaggio che ho cercato sin qui di abbozzare, alla quale si può appaiare, adesso, quella tra apprendimento linguistico e assimilazione/crescita corporea, una simile sostituzione non può che essere luminosamente fertile. Dato che Gli angoli della bocca sono un poemetto sull’insorgere dell’anoressia, si può a questo punto indicare il punto di partenza dello scatenarsi patologico nel rifiuto della nutrice, la cui funzione vitale è spostata dal cibo alla parola (la nutrice non sommistra più il nutrimento, ma la lingua: e man mano che il corpo dimagrisce, la lingua ingrassa, si fa sempre più creativa, sempre più originale). E vengo (e chiudo) ad un ultimo, significativo richiamo alla Commedia. Nella Parte offesa c’è un verso, ”mamma fummi poetando dramma”, che riprende un distico di Purg. XXI 97-98. Solo che il taglio rispetto all’originale (“de l’Eneida dico, la qual mamma/fummi, e fummi nutrice, poetando”), la vera e propria rimozione, non colpisce, come si vede, e come invece ci si potrebbe aspettare in base ad uno psicologismo un po’ volgare, la figura primaria della madre ma proprio quella solo apparentemente secondaria della nutrice.
Antonello Satta Centanin, parlando di Sanfredianina, indicava come un possibile riferimento il Pagliarani della Ragazza Carla. Nel frattempo Pagliarani ha pubblicato la stupenda Ballata di Rudi: il caso vuole che la penultima sezione del testo (ma anche la sua vera e propria conclusione) sia proprio intitolata Rap dell’anoressia o bulimia che sia. E vorrei concludere proprio citandone qualche verso, come omaggio ad un maestro ben più presente di quanto la colpevole miopia di alcuni riesca ad intuire, ed anche come accenno, scorciato al minimo, a qualcos’altro ancora che queste poesie di Rosaria Lo Russo possono dirci: “all’inizio di questo rendiconto se c’era una ragazza / stramba, senza ragione apparente, si trattava di reduci quasi sempre da campi / di concentramento, da quali campi sono reduci ora?”.