IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 13, febbraio 1998
saggi: il Corpo, pp. 42-49

Paolo Aita

Habeat Corpus   

   Come sono le labbra di Catullo che implora non solo un bacio, ma cento e altri da Lesbia?      
   Cosa sappiamo del tremore che prende Paolo al bacio di Francesca e che suggella una coppia che “insieme va” anche in pieno inferno?     
   Sembrano domande oziose, perché queste sono creazioni letterarie e non hanno alcuna pretesa di essere vere, pena fare la fine di Don Chisciotte. In realtà il personaggio -come convenzionalmente viene chiamato il veicolo di espressione delle idee dello scrittore- ha sempre avuto un corpo, nel senso che ha sempre avuto una ‘macchina fisiologica’ che gli ha permesso di compiere azioni, e con questa trasportare a spasso per la narrazione le idee rendendole fatti, costituendo così una realtà alternativa a quella del nostro giorno.
   Da qualche decennio a questa parte si sente parlare del corpo come valore proprio, che viene assunto nella sua specificità come componente dell’opera. Specialmente in arte, la body-art è una celebrazione della a-sematicità del corpo, da cui la non-esteticità dei risultati artistici di queste pratiche (Yoko Ono: una piscina riempita di persone nude; G. Pane: le spine di rosa conficcare nella carne; Abramovich/Hulay: il furgoncino Wolkswagen guidato con la prima a tutta velocità fino alla fusione del motore ecc.) assorbite dal terreno colto delle gallerie e delle pubblicazioni d’arte, determinano l’artisticità dell’evento.    
   Naturalmente la valutazione di questi fenomeni come artistici deriva da uno sguardo che ha perso la consuetudine dell’estetica. La scienza del bello è minata da un secolo di avanguardie, a loro volta sobillate dall’antropologia che valuta artisticamente qualsiasi manufatto a scopo non-utilitario, di conseguenza è uno dei valori dell’occidente decisamente in declino.
   Questo scritto si propone, di conseguenza di ispezionare i mezzi che consentono la realizzazione letteraria di un personaggio e della rappresentazione della sua carne nella prima parte; nella seconda si tenta un resoconto delle letterature che non intendono forgiare personaggi ma ‘far parlare’ il corpo direttamente, a soddisfazione dei contenuti intrinsecamente artistici, sebbene non narrativi, da esso veicolati.

La carne verosimile

   L’elenco dei personaggi della letteratura è naturalmente immenso. Alcuni hanno avuto tanta fortuna nell’immaginario collettivo o singolare che sono serviti, per una legge transustanziativa che riguarda tutta la grande letteratura, a forgiare il nostro costume mentale. Così è venuta fuori una vera e propria malattia, il bovarysmo, alla lettura del romanzo di Flaubert; è sortita una nuova sintomatologia del malessere, dopo il Werther di Goethe; e neanche il clero si è potuto sottrarre all’incorporazione di ruolo e corpo che suppone un personaggio come il Don Abbondio di manzoniana invenzione, che ha informato di se’ generazioni di curati. Essi vivono e palpitano con noi e non poterebbero essere più reali, sebbene usciti dalla fantasia dello scrittore. Noto, per inciso, che è moderna la tentazione dell’illustrazione del personaggio ‘a tutto tondo’: segnatamente Musil e Svevo ci fanno conoscere il personaggio come un referto. Ulrich e Zeno ci vengono presentati con uno sguardo radicalmente anti-idealistico che ci fa conoscere innanzi tutto la loro fisiologia e patologia, in seguito la psicologia e poi il seicentesco ‘carattere’. Naturalmente si tratta dei primi barlumi che le recenti antropologia e psicanalisi gettano sulla letteratura, barlumi che illuminano l’atto della creazione mediante una serie di particolari solo idealisticamente giudicabili di contorno. Così il modo di fumare, i tic, l’accidia ecc. diventano caratteristiche fondanti il personaggio e non bizzarre e mostruose considerazioni a causa della loro minuziosità.
   Con queste riflessioni siamo usciti, però, dal nostro argomento, ci ritorniamo velocissimamente presentando tre momenti dell’eterna quaestio sul corpo del personaggio, che è, inutile dirlo, il problema del corpo stesso della scrittura e della letteratura. 
   Esemplare della mentalità medievale applicata al nostro problema è il testo della cantata di Buxtehude Membra Jesu Nostri (Disco Drchiu 467660-2). In questa cantata ogni sezione è dedicata ad un organo del corpo di Cristo, naturalmente a metafora dell’azione di salvezza che con quella parte del corpo si può fare. Così i piedi sono del messaggero che annuncia la pace, sulle ginocchia si esplica l’atto della consolazione, sulle mani si compiangono le ferite del Salvatore, il petto è il vaso che contiene la salvezza, il cuore è la sede dell’invasamento divino, e il viso mostra ciò che bisogna eleggere per la propria salvezza. Con tipico procedere medievale, il dolore è il dolore di Cristo e la psicologia è esemplificata sulla base di situazioni ed affetti desunti dal Vangelo. Naturalmente non diversa poteva essere la scrittura del corpo: nell’ideale verticizzato che porta Cristo sulla cima, non c’è spazio per controversie, dibattimenti o incertezze: non solo la psicologia è un’appendice della morale, ma anche il corpo è paragone del corpo che è giaciuto sulla croce. La carne di Cristo è pertinenza dei fedeli esattamente come il suo pensiero, e la descrizione manierata e ripetuta di questo corpo è il perfetto pendant di un’umanità che vuole uniformarsi totalmente ai passi dell’avventura terrestre di Cristo. Ciò dimostra che il Medio Evo non semplicemente rifiuta il corpo, ma lo tratta alla stregua della sua cultura: esiste anche una cultura della carne che non la rimuove (e non potrebbe, in nessun caso) ma la conosce attraverso i suoi strumenti. Cristo, come il suo corpo, sono i veri personaggi di queste produzioni letterarie.
   Ad esemplificazione della sensibilità romantica, leggiamo assieme tutto il 5° capitolo del Frankenstein di M. Shelley: “Come descrivere la mia emozione di fronte a questa catastrofe, come delineare quel mostro al quale con pene e cure infinite avevo cercato di dar forma?” e poi “tanta magnificenza (di organi) formava solo un contrasto ancor più orrendo”. Il titolo originale del romanzo è Frankenstein; or the modern Prometheus e, come tutti i titoli, dice molto di più di ciò che sembra voler dire. In questo caso la creazione che sembra impossibile riesce – e la creatura si muove. La sensibilità romantica, però, quando è conscia del potere umano, alternativo al potere di Dio, ha orrore e recede. Lo scienziato crea “un mostro” e chiama “catastrofe” il suo risultato, nonostante la bellezza delle membra usate. Allo stesso modo la creazione non può essere mimesi dell’atto divino, è umana cioè innaturale nel suo dare la vita e l’anima, e deve creare mostri per essere punita, esattamente come Prometeo che ruba la scintilla divina. Il corpo di Frankenstein è orribile perché la creazione letteraria è orribile: si apre il baratro della sensibilità romantica che con orrore mostra la matrice di ogni creazione: l’inconscio e la morte, così inconsci saranno gli atti della creatura e morti i suoi organi. Ancora una volta il corpo del personaggio è metafora del rapporto che si vuole avere con la cultura, e la stessa organizzazione della sua carne è l’organizzazione delle idee dello scrittore.
   Non potevano che essere i Sei personaggi in cerca d’autore ad esemplificare il côté contemporaneo di questa ricerca. “Mi trovai davanti un uomo sulla cinquantina, in giacca nera e calzoni chiari, (…) una povera donna in gramaglie vedovili” (Ed. MI 981. p. 1; 12a). Qui la tentazione è dell’iper-realismo: l’immaginazione dello scrittore è abituata alla tangibilità della scena teatrale e mostra (meglio, di-mostra) per mezzo di personaggi vivi, come si muovono sulla scena, “vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro” (ibidem, p. 11) il suo pensiero. La mimesi superata l’impasse del periodo romantico, è operazione felice che soddisfa apertamente lo scrittore che presenta corpi perfettamente realizzati dal punto di vista letterario “Il  mistero della creazione artistica è il mistero della nascita naturale” (ibidem, p. 12). II processo di rinvenimento delle strutture primarie che psicanalisi ed antropologia operano nel nostro secolo, non poteva non avere conseguenze per la letteratura: si dà  per scontato che il personaggio abbia un corpo, con tutte le conseguenze che ciò comporta: la brutalità dell’incesto che si consuma in teatro (ma si consuma veramente?) viene presentata con l’ineluttabilità di tutti i fenomeni naturali: l’attrazione di un uomo per una donna. Il corpo porta con sé delle pulsioni neutre dal punto di vista morale, lo sguardo che lo utilizza è quello della psicanalisi che non giudica, bensì promuove la pulsione ad argomento letterario per mezzo della carne.
   A conclusione di questa carrellata si debbono tirare le giuste conclusioni. La carne in letteratura è sempre ragionevole, porta con se’ dei valori che, per quanto differenti dalla letteratura stessa (pulsioni, eiezioni, desideri, immagini del corpo), sottostanno sempre ad una formatività ben rappresentabile dal rapporto teoria/forma. Il corpo, almeno negli esempi portati, non è liberato, ma è un governato ingrediente della composizione.         
   L’aura del novecento si è alzata con gesti di arbitrio inedito: l’astrattismo e la de-formatività in pittura; la dissonanza e i rumori per la musica; la perdita del senso e della costruzione per la lettura, hanno rappresentato necessità impellenti per i creatori nostri immediati antecessori. L’immagine del corpo ne è stata conseguentemente modificata per cui, invece di parlare di una rappresentazione, per i prossimi esempi sarà d’uopo parlare di trascrizione. Vediamo come.

Forma e corpo

   Si chiude probabilmente nel 1870 l’avventura terrena di Lautréamont. I suoi Canti sono la prima e più audace razione ottocentesca del corpo in letteratura. Il libro non è, in realtà, che una collezione di allucinazioni che un’immaginazione particolarmente fervida ha trascritto. La cultura del corpo nasce dopo Baudelaire e mostra i suoi stessi soggetti: degradazione, spirito di ribellione, carnale immaginazione desiderante e un sanguinoso spirito di rivincita. Questi ingredienti basterebbero da soli a porre l’opera nel solco del 19° secolo, qualora ciò non bastasse, esiste la seconda polarità, quella pentita del surriscaldamento emotivo prodotto, castigatrice indefessa per tutto l’Ottocento dell’immaginazione romantica delirante. Lautréamont nelle Poesie chiede scusa per lo strazio ospitato nel suo primo libro. Il corpo nell’Ottocento non è liberale, un’infinità di pentimenti cattolici intervengono a frenare l’immaginazione. In realtà il passo è compiuto e, assieme all’opera di Sade, saranno eletti a pilastro per le eversioni più contemporanee. Le caratteristiche della scrittura del corpo sono l’irragionevolezza e la dismisura. Il corpo disconosce la differenza tra possibile ed impossibile, vero e falso, dilata, appunto trascrive, se medesimo sulla pagina attraverso l’immaginazione. Bambine squartate, trasformazioni in animali ed elementi naturali, ogni forma di nefandezza è possibile in questo libro, aborrito ma salvo dal pentimento finale. Vediamo insieme come si procede all’inserzione vera e propria del corpo in queste pagine: “Sono sporco. I pidocchi mi rodono. I porci, quando mi guardano vomitano (…) Sotto la mia ascelle sinistra ha preso dimora una famiglia di rospi (…) i miei piedi hanno messo radici” (Opere, MI, 1978. 11° p. 211) La crudeltà che traspare in questa pagina sarà una costante del prossimo secolo, mentre il testo non potrà più illudere sulle sorti della lettura: “Troppi incubi hanno succhiato avidamente alla mia gola, di notte e di giorno” (ibidem, p. 93). Lo scrittore è esautorato dalla propria immaginazione. Lo sforzo creativo senza una prospettiva estetica che non sia semplicemente l’espansione del male e la sua celebrazione, non basta a giustificare la creazione dell’opera: troppo reiterata è l’esibizione del male e troppo crudele è questa letteratura per sospettare, alla sua radice, altro che lo scacco umano dello scrittore, vissuto, però, con spessore da adolescente: “Ho avvicinato i miei capelli alla tua fronte rosea, e ho sentito un odore di bruciato, perché hanno preso fuoco (…) Nei miei occhi non c’è fuoco, benché provi, in essi, la stessa impressione che avrei se il mio cranio fosse gettato sotto un casco di carboni ardenti (…) uno scorpione abbia fissato la resistenza e le sue pinze aguzze sul fondo della mia orbita triturata” (ibidem, p. 155). La letteratura, anzi, diventa una vera e propria scoria di cui liberarsi al più presto per fare spazio a questi incubi esigenti. Il gotico e il macabro del secolo sono superati da una visionarietà che, del tutto aliena dalle convenzioni, occupa coi suoi valori queste pagine. E il corpo che urla le sue nuove ragioni con un’arroganza ignorante di tradizioni e convenienze letterarie. Con la sua sauvagerie prepara gli scandali che saranno delle avanguardie tra breve nascenti; dopo Lautréamont qualsiasi piacere che si prenderà nella scrittura di racconti pacifici ed edificanti sarà un’impostura. Si nota l’ingenuità della produzione di Lautréamont se paragonata al passo successivo, quello di Celan, che fa intervenire il corpo nella formulazione grammaticale della frase. Occorre considerare che è il primo poeta che incontriamo in questa rassegna, la cui radicalità di gesto scrittorio non si può confrontare con lo svolgimento temporale e conseguenziale di fatti tipico della prosa, ma può ergersi, appunto come è proprio della poesia, con valore di stele sulla pagina. In poesia si attenta alla formulazione grammaticale e sintattica con armi ben più micidiali di quelle della prosa. Anche il verso si lascia dissuadere dal bianco circostante. L’ottimismo emanatistico proprio di tutti gli autori fin qui esaminati, cede il passo ad un dubbio energetico radicale, per cui la rappresentazione di se’ e del corpo cede il passo a una serie di dubbi che si traducono in pause, cesure del verso e vere e proprie interruzioni del flusso poetico: “RITAGLIA LA MANO ORANTE dall’/ aria/ con la forbice/ degli occhi,/ mozza le sue dita/ col tuo bacio:// fanno restar senza fiato, oggi,/ le mani giunte” (Luce Coatta, MI, 1983 p.49). La poesia è vittima di un disagio che si sente già dal suo (mal) disporsi sulla pagina, il corpo è disassato come più non potrebbe e porta i segni del suo essere dilaniato, fino a comportare, per lo scrittore, l’estrema testimonianza del suicidio nelle acque della Senna. “IL CUORE MATTO, dislocato,/ dal colpo mezzo cieco.// nel polmone,// grumi di respiro che gorgogliano,// lentamente, lambita di sangue,/ prende forma/ la vita altra, di rado/ proclamata, del lato/ destro” (ibidem p.59). Non è possibile organizzare un racconto perché la scelta che fa il corpo neanche si organizza in continuità: il fiato ha lo stesso valore dell’aria spostata dall’atto. Il corpo è per sottrarsi; quasi ombra di organi tenuti insieme da forze benigne ma così lontane da non ispirare più neanche nostalgia. “SBATTI via leggermente/ i cunei di luce:// l’ondeggiante parola/ la possiede/ il buio” (ibidem, p.47). La parola si sottrae da chi la possiede; il testo è forato da interrogazioni così radicali perché memori della millenaria interrogazione ebraica della Bibbia: anche il corpo deve giustificarsi, anche la sua macchina biologica. Si dovrebbe usare la lingua di Celan per chiedere al cuore: “Perché batti?” o all’occhio: “Perché vedi?”. La parola stessa non trova giustificazione o conforto dalla pagina, e il pensiero di poter sottrarre qualcosa a questo nulla divorante è pura illusione.
   Siamo giunti alla fine di un percorso con un passo che non intende più il corpo come origine da liberare, anche come forza-lavoro, o da riconquistare, forse non lo sente neanche più come valore in sé o entità. Come può essere distante la prospettiva femminista di ripresa del proprio piacere o godimento; come questo gran parlare di body-building, di piercing o dell’ideale bellezza deve suonare immorale alle orecchie del poeta. Celan fa vedere che esistono forze al cospetto delle quali il corpo (che pensavamo così profondo e radicale) scompare. È l’ultimo passo della civiltà nata dalla Rivoluzione Francese? Forse. Intanto le avventure del pensiero non possono che continuare.