IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 13, febbraio 1998
racconti brevi, pp. 6-13

Baldo Lo Cicero

Fuoco

   C’era un vecchietto di nome Matteo. Baffetti acuti e pensieri morbidi come lanugine. Occhietti ballerini, capelli radi ma brillanti e bene in piega, rasatura fresca e profumata tutte le mattine, narici mobili e simili a ventose, labbra sgonfie e pallide ma impertinenti. Settant’anni eppure arzillo come pochi. Gran paura della morte, che superava atteggiandosi da quarantenne. Il fisico lo assecondava, e lui sembrava compiacersene.     
   Modi eleganti, abbigliamento distinto, cortesia da vero gentiluomo. Amava agghindarsi e profumarsi come se ad ogni passeggiata avesse dovuto spezzare il cuore a qualche giovane fanciulla. Un fiore rosso e bene in vista tondeggiava sull’asola sinistra della giacchetta stirata e inamidata. Colletto bianco e lindo, cravatta blu oltremare, vestito grigio fumo. Scarpe impomatate e lucide, nere, coi calzini che spiccavano per efficace contrasto di colori. In famiglia tutti lo adoravano. Nel condominio lo tenevano in gran conto. Gli abitanti del quartiere nutrivano per lui un profondo senso di rispetto. Salvatore, il gestore della ferramenta, lo riveriva tutte le mattine; alla sala da barba lo chiamavano commendatore.        
   Le botteghe alimentari erano la sua seconda casa. Trascorreva ore e ore ad elaborare stranissime ricette culinarie, che poi regalava alla sua amica Annetta, proprietaria della salumeria. Donna tutta carne, nubile, non giovanissima ma ben tenuta, amava tanto farsi chiamare con quel diminutivo. Le forme prorompenti ed il suo sguardo esperto e malizioso poco s’intonavano con quel nomignolo da ragazzetta casta. Lei non vi badava e, quando un cliente la faceva lunga sul conto da pagare, gli strizzava quattro volte l’occhietto capriccioso. Quello pagava tutto sorridente e se ne usciva fischiettando. S’incontravano la sera stessa e, per un po’ di tempo, l’argomento non veniva più ripreso. Annetta, allora, si divertiva ad alzare nuovamente il prezzo. Se il cliente tornava a lamentarsi, cambiavano luogo dell’appuntamento ma la prassi era la stessa.     
   Poteva andare avanti anche per mesi. Poi Annetta si stancava, smetteva di strizzare l’occhietto capriccioso ma il prezzo della merce non lo ribassava. Il cliente, allora, si mostrava insoddisfatto. Sbuffava, batteva i pugni, alcune volte osava minacciarla. Ma lei non lo temeva e con grande gentilezza gl’indicava, a pochi metri, una salumeria ben fornita e coi prezzi più abbordabili. Che smettesse di scocciarla! Non aveva mai costretto nessuno a servirsi li da lei e, se qualcuno si abituava al trattamento, tanto peggio!      
   Matteo ed Annetta formavano un quadretto simpatico e grottesco. Lui, reclinato sul bancone, molle nelle sue movenze non perché lo desiderasse ma perché le ossa scarne davano allo scheletro un equilibrio instabile ed alla carne piena libertà di movimento, sembrava un corteggiatore vecchio stile che le sussurrasse all’orecchio amorevoli parole. Lei lo guardava sorridente, con i suoi occhiolini che si dibattevano con frenesia. Quattro, cinque, sei, sette volte. A guardarla bene si sarebbe perso il conto. Quegli occhietti si dibattevano infinite volte, senza tregua, silenziosamente.
   Ma parlavano solo di ricette, e Matteo ne scovava alcune veramente originali, piccanti, con cibi inondati di vino e ricoperti di spezie tra le più aromatiche. Gli esperti li avrebbero giudicati afrodisiaci, ma di quella parola il buon Matteo sconosceva origine e significato.        
   Matteo viveva in casa con la figlia maritata. I nipoti comandavano a bacchetta, e lui si mostrava docile alla volontà mutevole di quei mocciosetti. Regali e carezzine. Mai di no. Matteo non sapeva dire no a nessuno, ed anche il genero se ne approfittava. Documenti, pratiche noiose da sbrigare, bollette da pagare, pensava a tutto il buon Matteo.     
   Paparino, odiosissimo nomignolo, paparino, che bravo paparino, così lo chiamava il marito della figlia, il genero, Camillo, insomma il padre dei suoi amati nipotini. E lui prezioso come nessun altro, a addossarsi code interminabili all’ufficio comunale. Per poi sentirsi dire: – Grazie paparino. E bravo il paparino!    
   Matteo guidava la macchina con disinvoltura, andava in bicicletta e possedeva un bizzarro motorino, colore arancio acceso, primi anni settanta, anche lui scattante e vispo. Bella coppia veramente! Matteo e il suo motorino. Che morale, che valori! Altri tempi. Tempi impolverati, che avevano nel nonno uno strascico romantico.
   Matteo era un vecchio, nient’altro che un vecchio miserabile. Eppure, non s’era mai sentito così bene. Proprio bene, si sentiva. Male, no di certo. Anzi, forte, energico, vitale. Ma no, no non è neppure questo. Ecco, adesso si, credo di capire, non c’è dubbio, Matteo quel giorno si sentiva e basta, si sentiva veramente, si percepiva in una consistenza tesa sino al l’esasperazione, tutto quanto.       
   – Bene, male, che deplorevole mania di qualificare i nostri stati d’animo. E dov’è che si troverebbero gli stati d’animo? L’animo soffre, è allegro, anzi no, è triste e un po’ depresso. Sono un po’ giù di morale. La morale? La tua morale sta giù? E di quant’è che sta giù questa morale? Poco, molto, troppo?   
   Adrenalina, si, adrenalina, oggi la sento scorrere nel corpo, anarchica e ribelle. Il tempo non esiste. Io l’ho dimenticato. Dimenticato? Eh no, sarebbe semplice. Il tempo, io l’ho sconfitto. Matteo, lui ha sconfitto il tempo. Oggi ha capito di essere il più forte. II tempo e lo spazio, Matteo li ha sconfitti tutti.        
   La gioventù. Che gioventù? Non vedo nessuna gioventù? Questa? Questa qui? Ho capito, ho capito. Loro, proprio loro, sarebbero questi i giovani che dovrei invidiare? Fiacchi, molli, snervati. Crescono nell’ozio, praticano vizi che li annacquano, bevono, fumano, fanno sesso, sempre soli perché donne non ne hanno. Brandelli di giovani, resti di carne, derelitti da commiserare. –     
   Si sentiva proprio bene, Matteo, il buon vecchio. Insomma, così per dire, per essere più chiari. Bene, soltanto perché non stava male.
   E che ricetta aveva preparato! Nuova, squisita!. Pennette, peperoncino, pepe, uova, e poi vino molto vino, molto sale, tanto sale. Una montagna.      
   Via da Annetta, a proporle una cenetta.    
   Lui scriveva ed Annetta cucinava. Com’era brava tra i fornelli. Ed in casa, con quel suo grembiule che la copriva solo per metà, tutta discinta, che ancheggiava. Certo, certo che ancheggiava.
   – Come ancheggia bene! Com’è carnoso quell’ancheggiamento! Carne che balla galleggiando a mezz’aria. Sento il profumo, profumo di carne. Non è carne fresca, no, no, ma com’è ben conservata! Ed io ho fame, tanta fame! E poi il ritmo, non le manca certo il ritmo. Ancheggia seguendo un proprio ritmo musicale, interno, una melodia opportuna e immaginaria. Non c’è musica! L’ha in mente, la sua musica. Si dimena a suon di musica che non esiste. Che classe! Una donna di gran classe, una vera ballerina. Cucina danzando. Danze culinarie, gustose come le sue pietanze. –
   Annetta non si preoccupa, si scioglie in passi sempre nuovi, musica che le riempie tutto il seno, e poi la camera, le orecchie.
   Matteo? E di che preoccuparsi? Di un vecchio miserabile? Perché, in fondo, sono un vecchio, non è vero?        
   Un paparino.     
   Lei lo tiene a bada il paparino.       
   Tenerlo a bada? Adesso che ci penso, non è affatto necessario. Matteo ha occhi solo per guardare, cervello per pensare e immaginazione per sognare. Come impensierirla? Si è dovuta preoccupare di ben altro, la bella prorompente. Annetta, Annetta la bella prorompente, la bella danzatrice che prorompe.  
   Mani che la sfiorano ripetutamente, che le disegnano il corpo tondeggiante, un corpo che si gonfia morbido sotto il tatto eccitato di quelle carezze, che s’inarca, raggomitola, e poi inizia a fare sua la brama. Quando la brama la possiede, Annetta diventa irresistibile. E’ un demone che celebra il suo sabba, con balli sfrenati e congiungimenti ripetuti.     
   Matteo queste cose le sa bene.       
   Quante volte ho spiato i suoi incontri con quegli animali? Sempre, sempre l’ho spiata. La seguivo di nascosto, come un segugio che fiuta la sua preda, e stavo li a guardare, a contorcermi dal desiderio, a volerla, desiderarla e poi ad odiarla, con passione e disprezzo simultaneo.    
   L’alito, quel caldo alito, la sua bocca umida che rende turgido tutto ciò che tocca. Avrei voluto sentirmelo vicino quel suo alito, oppresso da quell’alito, soppresso il respiro e tutte le altre facoltà, ma con quell’alito che mi riscalda. 
   Assaggia la mistura, Annetta.        
   Giudica la cena.
   Brucia, ma le piace.    
   Le piace tanto il fuoco, l’ha sempre addosso, ma non si brucia, lei. Gli altri si, loro si bruciano continuamente.  
   Il fuoco.   
   Ma Annetta non si brucia.    
   Non sa che Matteo può farle male, veramente male, tanto male? Non lo sa? Se soltanto lo volessi. E’ li, che ancheggia, ed io potrei spezzare quella danza con un colpo.  
   Che bel collo aveva Annetta! Bianco, carnoso. Carne tutta seta, seta morbidissima. Non troppo largo, e neppure troppo stretto. Una mano bastava a cingerlo in tutta la circonferenza. Una mano era più che sufficiente.
   La mia mano è molto grande. Una gran mano, con dita lunghe, ed affilate, anche, che afferrano senza mollare. Che piacere stringere quel collo.       
   Non ridere, sai, non provare a ridere di me!       
   Che c’è?   
   Non vuoi? Ma con tutti gli altri vuoi.       
   Perché scappi? Non aver paura, ci conosciamo da molto, se non sbaglio. Siamo amici. Non è vero che siamo grandi amici?  
   Non hai paura? Scusa, scusa tanto per averti spaventata. Ho frainteso, danzavi e credevo stessi per scappare. Ho frainteso, scusa. Ma ti dimenavi così tanto che ho temuto, ho avuto paura che tu mi rifiutassi. Alla mia età, sai com’è, per un attimo ho temuto che potessi farti schifo. E invece, tu non desideravi altro. Ti piaccio, vero, dillo che ti piaccio tanto! Parla!         
   Come? Che hai detto?
   Credi che io sia qui soltanto per mangiare?       
   La ricetta, certo, la ricetta.    
   Cosa credi che m’importi di quella stupidissima ricetta? Non m’importa niente. Non capisci? Ma cos’hai in quel cervello fradicio? E smettila di balbettare! E’ te che voglio! Farai bene a preoccuparti!      
    Inizia ad aver paura del caro paparino.    
   Se vuoi, puoi anche metterti a gridare. So io come spegnerti per sempre.  
   Vecchio? Mi hai chiamato vecchio? Mi disprezzi? Ma io sono molto meglio di tutti quelli che hai avuto fino ad ora.   
   Repulsione? Non vuoi avermi perché provi repulsione? Non devi avermi, nessuno te l’ha chiesto. Sono io che voglio prenderti, con la forza se continui a rifiutarti, e allora posso anche lasciarti un marchio che non te lo potrai più togliere.      
   E vieni, non scappare, tanto non puoi andare da nessuna parte.       
   Cosa c’è, cosa c’è adesso! Perché non ridi più? Non piangere, stupida, non le sopporto le tue lacrime!      
   E non gridare.    
   Fai così con tutti?       
   Si?
   Scontrosetta, ma so io come comportarmi con quelle come te.       
   Ti da fastidio la mia stretta? Ma è cosi bello stringere, è tanto morbido che mi viene voglia di vederti soffocare. Chissà se scorre sangue in questo collo bianco e morbido! Non credo, sai, non credo proprio. E’ troppo bianco perché ci possa stare dentro sangue, quello bello, rosso porpora, denso e caldo.        
   Sembri smorta, guardati, sei pallida da far paura, dovresti essere sangue e invece sembri latte.       
   Che dici? Non sento, Annetta, non ti sento! Se non ti decidi a parlare un po’ più forte, non capisco una parola. Ti sto facendo male, vero? E’ questo che vuoi dirmi, che ti sto facendo male? Tu mi rifiuti, e io ti sto facendo male? Mi dai del vecchio, ridi di me, mi scappi come fossi pazzo, e io ti sto facendo male? No, no, Annetta, così non va, non può proprio andare, dai retta a me, così non può più andare avanti.
   Volevo aprirti gli occhi, ci sono in giro tanti delinquenti. Ma tu, no, tu scappi. Ti faccio proprio schifo? E perché ti faccio schifo? Perché ti desidero? Perché ti amo? Perché voglio averti con la forza? Cos’altro dovrei fare? E tu, allora? Credi d’essere migliore? Quanti te ne sei portata a letto?   
   Già, proprio così, te li portavi a letto. Tutte quelle smancerie, con uomini che neanche conoscevi. E adesso vieni a farmi la morale! Tu! Credevi che non me ne fossi accorto? Vengo qui per giudicarti e per redimerti, ti offro la possibilità di riscattarti, io ho un alibi morale per poterti giudicare. Faccio un processo, qui, su due piedi. Sono giudice e giuria, e tu non puoi difenderti.      
   Colpevole!       
   E’ questa la sentenza. Colpevole senza assoluzione. Non possono sperare nulla quelle come te.     
   Ma tu, tu, cos’è che puoi dire contro il mio comportamento? Ho mai peccato, io? Mi sono mai macchiato? Ho mai fornito un pretesto per la mia condanna? E come credi che sia arrivato a questo punto? E dici che ti sto facendo male! Ma questo non è niente, tu devi essere punita.    
   Parlo troppo?    
   Hai ragione, è vero, sto parlando troppo. Ma tu non fai nulla per tenermi compagnia.  
   Che puoi dire, d’altra parte? Ti ho amata, ti volevo. Non volevo altro che il tuo corpo. Che diritto avevi, tu, di rifiutarmi?     
   Come sei debole, Annetta! Eppure sembravi così forte, così sicura, prorompente come un’amazzone sul suo cavallo! Riuscivi ad uscirne sempre a testa alta, senza mai sporcarti. Ti vedo in altro modo, adesso. Indifesa, poverina, ed io così potente. Posso decidere della tua vita. Com’è bello poter decidere della tua vita! Perché chiudi gli occhi? Non fingere di farti male! Non ho ancora stretto. Devo ancora incominciare.
   Apri gli occhi, maledetta, e ascoltami quando ti parlo! –       
   Agitarla, scuoterla, stringere la presa e mollarla all’improvviso, ma Annetta non vuol saperne di parlare.  
   Matteo inveisce ma Annetta resta muta. La picchia, ma Annetta è li, impassibile, fredda come il ghiaccio, bianca ancor di più, contratta in una posizione storpia, così poco seducente nel freddo della morte. Dov’è quel seno così sodo? E le anche, già, quelle belle anche mobili e formose, la gloria dei fianchi femminili, perché adesso si sono irrigidite?
   Matteo la guarda attonito.‒
   Come posso essermene innamorato?