IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 13, febbraio 1998
poesia e critica, pp. 72-76

Alessandra Giappi
da “Casa di frontiera”

Piove grandine o luce?
Perché all’infinito fioriscono occhi,
cosa accresce la distanza
dalla mente allo specchio
dove si muovono mani e flutti
e fronde brandite come spade,
dove vanno le inquiete nubi
in questa sera di aprile
e l’inattesa luna cosa svela:
colline d’intatti alberi
e piccole stanze sonore.

*

Supponiamo una notte viola,
un transitare di numi,
di silenziose navi
e vento e sabbia contro la ringhiera
tra il mare e la stanza.

La pena degli occhi

è non vedere oltre questa luce.

Periferia

Ogni gesto germoglia in queste sere:
i passi dell’ultimo avventore,
la donna che raspa fra i cartoni
in un punto che non è paese
né città, affonda la parola
in una terra scura
cintata da pneumatici. 

Accetta la fatica

la limpida mano che setaccia l’orto
ricavato tra il muro e la strada,
accoglie i segni e non si spinge oltre
il suo orizzonte, mosso da colline. 

*

Seguiamo i passi delle figure
curvate da stagioni violente
parlanti una lingua che non arde
e tuttavia resiste ai margini del grano
nelle case difese dai randagi;
seguiamo il loro andare da vaso a vaso
tra i nani di gesso del giardino
versando acqua sulla cenere più chiara,
la loro terrestrità,
il salutare con la sola mano.

*

Il piovasco che rompe contro i muri
e solo a dardi penetra nel folto
della vita che trapassa
dalle foglie in vento
dice di restare in questa pianta
estesa di cortili:
nel chiuso delle mani si prepara
una musica accesa,
una vena chiara d’esultanza.

Interno

I

Accosta appena il vetro, che un troppo
di gelo non ti prenda.
Vedi laggiù lo stormo sbandato,
i passanti assediati dalle luci:
noi fissiamo una forma trasparente
che non consuma mani, né carta, eppure lungamente brucia,
crepita leggera, è un dono del tempo,
della pianta del presente che si avvera.

II

Abbi cura delle radici, sonda
il fondo con le dita, fa’ che sia
l’umore lungo, limpido il vaso
perché di nuovo esploda il seme
dal suo sonno e ci porti un mattino
un sapore di vento
sui guadi larghi delle capitali:
intanto cura la terra e la stanza
sia una serra, invasa dalla luce.

*

Parla così dal centro del suo grembo
la naturata natura:
dalle mani e dal cielo
una stessa manna di segmenti,
di opere negli anni,

o delira

talvolta risospinta in corsi d’acqua,

in gorghi

quella sua ormai subliminale voce
Con la calma dei colli ti richiamo,
col tremore, col terrore di un torrente.

*

Sfilano dal prefabbricato albergo
volti, figure che non sanno,
le vedo stringersi le tempie al tavolo da gioco
nella notte della caduta dei re,
della finestra aperta sul bosco,
leggo passato e presente in questo dòmino incompiuto,
ne scorgo intero il dramma nel respiro
del daino impazzito nella neve di Mayerling.

*

Dominato dall’ira e dalle fronde
limpido giorno e gravitante notte
di allarmi a vuoto, di voci d’immigrati
e albe crestate di rovina
e ore, aride bocche d’infinito
castigate in un coro di contralti
e ancora cime, e colli sovrumani:
tutti vi chiamo a inondare questa stanza 

*

Si svuotano le case,
si levano stridendo in nubi.
Dov’è la cruna, s’interroga il cronista,
il colmo di materia sublimata
che muta in fiamma le fascine:
sono io – si chiede – il varco, l’evento,
la voce che l’essere dichiara,
la stagione barbara di vento?

Commiato

Cosa dire della terra rinata
appena cominciata la stagione
di rade nuvole, di vento:
che voci si levano dal fiume,
che un brivido scuote l’imperturbato corso?
Scrivo perché non vada perso questo bene,
perché trattengano le rive il tuo passaggio.