IL ROSSO E IL NERO
anno 7, numero 13, febbraio 1998
racconti brevi, pp. 14-17

 Alessandro Locatelli

Abbozzo di soggetto per un video

    Per sommi capi, la storia dovrebbe essere questa:
   (vorrei, con questo soggetto, come dire? partire dal banale per arrivare al surreale).
   Una piazza grandissima, oppure una spiaggia (dunque i palazzi di cui parlerò dovrebbero essere in riva al mare, e mi sembra di difficile realizzazione), oppure una via di mezzo, che alla fine potrebbe risultare la soluzione migliore: dovrebbe esserci una parte di questa piazza con dell’erba, o meglio della sabbia, insomma qualcosa di morbido, dove i ragazzini possano giocare a pallone.      
   Uno o più palazzi, preferibilmente non troppo alti.      
   Un uomo giovane (25-30 anni) arriva davanti al portone. Citofona. L’inquadratura dovrebbe essere: lui che citofona, visto da qualche metro di distanza, poi un primo piano del citofono dal quale esce una voce di ragazza che dice: “Scendo subito”, oppure, meglio: “Due minuti e arrivo!”
   Il giovane sorride, poi, perfidamente, aziona il cronometro del suo orologio, e quindi comincia a camminare lentamente, su e giù.   
   C’è un uomo con i capelli bianchi, affacciato ad un balcone, che sembra osservarlo. Forse è il padre della ragazza. Infatti fa un cenno, a cui il giovane sorride.     
   In lontananza dovrebbe sentirsi il rumore di un’automobile con l’autoradio ad altissimo volume, musica da discoteca, di quella TUNS-TUNS-TUNS-TUNS. Lui continua a passeggiare, allontanandosi un po’ di più dal palazzo. Ogni tanto lancia uno sguardo verso il portone, un paio di volte guarda l’orologio.        
   L’uomo al balcone gli fa un cenno come a dire “E allora?”; lui alza le spalle. “Che posso farci? Siamo qua.” sembra voler dire.         
   Fischietta, si mette le mani in tasca, ogni tanto dovrebbe assumere, nel suo andirivieni, movenze clownesche.   
   A poco a poco nella piazza si raggruppano ragazzini, uno ha un pallone Super Santos in mano. Ragazzini: quattordici-quindici anni, non troppo piccoli quindi. Oddio: qualcuno più piccolo, a dire la verità, c’è.
   Due passaggi, quattro palleggi, con lui che li guarda da lontano, non tralasciando di voltarsi un attimo indietro verso il portone, che quindi è alle sue spalle.     
   I ragazzini fanno le squadre. Uno di loro è uno spilungone magro magro, una specie di Socrates senza barba.    
   “Pari tuò, pari tuò, pari tuo-i!”       
   Si vede arrivare nella piazza un altro tizio, capelli neri con il gel, abbronzato, giacca bordeaux oppure gialla, telefonino. Sta telefonando, appunto: “Sono qui sotto, scendi”. La sua ragazza scende subito, quasi di corsa; insieme si allontanano, camminano lentamente, lui ha le movenze di un culturista iscritto al fronte della Gioventù, oppure un modello di Armani, Versace. Porta un paio di occhiali neri sottilissimi.       
   Uno dei ragazzini chiede al nostro protagonista:
   -“S’à fira a parare?” (Sa giocare in porta?)   
   Lui fa una smorfia come a dire bè insomma, sò sò, me la cavicchio.        
   E si avvia verso la porta, togliendosi la giacca estiva blu e l’orologio. Ciascuna delle porte è fatta di due pezzi di legno, a circa quattro metri e mezzo di distanza fra di loro. Niente traversa, niente rete.    
   Si comincia a giocare, e la partita s’infiamma. Il nostro portiere respinge la palla di pugno, la blocca in presa, si tuffa, devia volando. Sfodera grandi parate. Una, spettacolare, su un calcio di punizione, e si rialza con un gesto di esultanza ‒ la ripresa andrà fatta da dietro la porta, e subito dopo un ralenty.   
   Dimenticavo: lui indossa jeans chiari, per meglio dire vecchiotti e scoloriti, e una camicia a maniche corte fuori dai pantaloni, molto colorata.     
   Alla fine incassa un gol, di testa, da due metri, imparabile.   
   Si rialza, tutto incazzato, facendo un gesto tipico da portiere battuto, come a dire: “L’avete lasciato tutto solo, smarcato!”     
   La partita finisce.        
   Lui si ricompone, scrollandosi la sabbia di dosso, poi va via. Esce dal campo visivo ‒ la ripresa dev’essere una panoramica della piazza con lui di spalle che si allontana; dopo una ventina di secondi in cui abbiamo visto solo la piazza deserta, silenzio assoluto, lo vediamo tornare. Forse è andato a controllare la macchina, forse a fare pipì da qualche parte, non so. 
   Il tizio al balcone gli fa cenno di avvicinarsi e cala con circospezione un paniere. Dentro c’è una bottiglia di birra.      
   Un sorriso di ringraziamento e ricomincia a passeggiare, sorseggiando.   
   Intanto s’è fatto pomeriggio, tardo.
   Arrivano dei ragazzi su tre ciclomotori. S’infilano nel portone e pochi secondi dopo si sentono voci, schiamazzi (questa parola non mi piace, sa di vecchio moralista, ma è per rendere l’idea). C’è una festa di sedicenni. Ne arrivano tanti, tutti in motorino, ragazzi, ragazze, alcuni con un pacchettino in mano, è una festa di compleanno.
   Musica. Da discoteca, a tutto volume.      
   Anche lui, ogni tanto, camminando, accenna a ballare.
   Poi (si capisce che passano ore) i ragazzi cominciano a scendere, ridacchiando abbracciati, masticando chewing-gum.
   La musica smette e c’è buio.
   Lui passeggia e comincia, maldestramente e canticchiando una musichetta, ad imitare Totò quando faceva il burattino.        
   Dopo un minuto smette e si siede, con le spalle appoggiate a un muretto e la bottiglia in mano, vuota.     
   Il signore al balcone non c’è più, la serranda è abbassata.      
   Lui si assopisce, reclina la testa a sinistra.
   Una lunga inquadratura del suo viso mentre dorme.    
   Il rumore del portone che si apre, ed esce lei. Dovrebbe indossare un vestito lungo blu o rosso scuro, con gli spacchi. Non la descrivo perché ancora devo decidere chi potrebbe, dovrebbe interpretarla. Comunque la vorrei molto carina. Lui si alza, si danno un bacio, breve.   
   -“Scusami, ti ho fatto aspettare…”  
   Lui solleva le spalle come per dire ma figurati.  
   Poi si allontanano, abbracciati o tenendosi per mano, ancora non lo so.