IL ROSSO E IL NERO
anno 6, numero 12, aprile 1997
poesia e critica, pp. 79-84

Claudio Recalcati
“Ombre di nessun nome”

Violare il luogo questa
era legge per noi
che non conoscevamo il nascondiglio ma
chi era poi la pazza
a perdifiato l’urlo dalle scale
non fare ci diceva si squarciava
figlio per figlio esagerava
una sequenza di sciagure.
Tremavamo alla sua voce
alla forza che esclude altri mondi.
Ti manderò una cartolina forse
dal ballatoio più lontano…
Non posso migrare altrimenti. 

*

Io vi ricordo appena ed è rincorrere
una sleale preda come lei
con le sue gambe impolverate gli occhi
già furbi di chi ti può domare
la chioma inzaccherata nella zuffa.

Chi era prima di sparire
dopo che all’arco della chiesa
mi disse parto non ci ritroveremo mai.

Probabilmente diventava grande e lontana
come i battelli e l’olmo
la sera al gioco sbarco dei pirati. 

*

Sabbie della clessidra lo capisci
che sedimentano in un solo corpo
giù nella stessa ampolla
umili e indivisibili
povere storie e fragili mutamenti
e noccioli d’uomo
che ad ogni variazione stagionale
nel rito dei travestimenti
generano forme ad altre simili
se non per corruzioni casuali.

*

E si perdevano sovente
al seguito di cani, coriandoli o
lune dipinte in china
con occhi d’acqua
inquiete forme o meglio
informi inquiete ombre
celando banali storie
sotto le scorze nere
per scomparire al lampo
d’un braciere
o a quello meno eroico
dei fanali.

*

Dovrai all’ombra l’ultimo respiro
in una notte non più notte
ma alba delle tue impronte
lasciate anni fa su questa spiaggia
ti dibattevi come il mare le corolle
di muschi ed alghe rettili della rena
mostri alle nostre storie
la notte che ancheggiando risalisti
come i salmoni le correnti
i traditori l’erta degli abissi

*

Si sfibra il canto. Un tempo
urlavano corali le begonie
compagne dei marmi e
la scalinata sorrideva
nei suoi cinquecent’anni di fratture
scopriva una gengiva di muschi
per noi la sera in gara dopo il lago
e le merende ai pesci.

L’ho ritrovato il canto dove cresce
fra le sterpaglie milanesi
l’ultima colonia delle ortiche.

*

È dolce l’ora quando il rosso
travolge la triangolare
geometria di case e prati dove
divorano le sillabe i figli
nei quattro stracci un lusso è avere voce
dall’antro li chiamava ed era roca
e bruna e storpia
è pronto gracchiava con fatica
un torna a casa che rendeva fieri.
Quella è mia madre mi dicevi
quella che sbraita come un cane.

*

Non distinguevi il faro
alle improvvise gocce sulle guance
serravi i pugni ansante bestia
nel territorio dove già migrate
le vittime possibili restavano
ombre sottili o rare tracce
a tormentar la coda del tuo zaino
che dalla rupe lenta fluttuava
pigro segnale della tua rabbia. 

*

Scivolano magre figure…

le guardi disossarsi, farsi
serpente ed ombra
nella straniera onda soleggiata
dove sai il canto e non ricordi
d’ogni notte la storia

una litania madre
del desiderio

prima
che quel deserto diventassi io

oh dio della malasorte!
Troppe mani hanno incendiato un corpo
nato per osservarvi irripetibili
nei gesti d’ogni gloria e d’ogni affanno

non per l’abbraccio o per l’inganno
del tatto

un gusto discutibile.

*

L’ultima luce è qui
e non potrai soffrire oltre
quel muro stanze
una rovina senza storia e
a stento distinguibili l’arazzo
coriandoli di carta da parati
nubi d’orina al suolo o
la voce che declina l’invito
del vecchio padrone
piagato dalle rughe.

Ogni abbandono ha occhi gonfi
e simularci allegri nel distacco
è misura e limite umano.

Ad altri apparirà
qualche longevo mostro
nel solco lasciato sul divano…

una mitologia indecifrabile.

*

Un passo dopo l’altro
un grembo dopo l’altro e l’altro
s’affanna, a spanne misura
il tempo che resta
madre precipitosa
terra infranta, scaglia del nostro nome.
Chi passa ossessionato dal suo dire
sa che non nuoce ad altri
basta voltarsi, farsi scudo
col palmo delle mani ma
chi resta ha ombre
per ogni suono un’onda a precipizio
s’accende minacciosa nella fuga.

*

Puoi udirne il latrato
lungo la ferrovia. È diventato
simile negli anni
all’oggetto che lo domina.
Lunghi ululati portano i treni,
ad uno ad uno li intuisce
nel loro perentorio scandire
ora per ora le giornate.
Un vile?
La strada e la fedeltà
hanno il sapore del disastro.
L’ho battezzato con diversi nomi.

*

Scivolano magre figure…

le guardi disossarsi, farsi
serpente ed ombra
nella straniera onda soleggiata
dove sai il canto e non ricordi
d’ogni notte la storia

una litania madre
del desiderio

prima
che quel deserto diventassi io

oh dio della malasorte!
Troppe mani hanno incendiato un corpo
nato per osservarvi irripetibili
nei gesti d’ogni gloria e d’ogni affanno

non per l’abbraccio o per l’inganno
del tatto

un gusto discutibile.

*

L’ultima luce è qui
e non potrai soffrire oltre
quel muro stanze
una rovina senza storia e
a stento distinguibili l’arazzo
coriandoli di carta da parati
nubi d’orina al suolo o
la voce che declina l’invito
del vecchio padrone
piagato dalle rughe.

Ogni abbandono ha occhi gonfi
e simularci allegri nel distacco
è misura e limite umano.

Ad altri apparirà
qualche longevo mostro
nel solco lasciato sul divano…

una mitologia indecifrabile.

*

Un passo dopo l’altro
un grembo dopo l’altro e l’altro
s’affanna, a spanne misura
il tempo che resta
madre precipitosa
terra infranta, scaglia del nostro nome.
Chi passa ossessionato dal suo dire
sa che non nuoce ad altri
basta voltarsi, farsi scudo
col palmo delle mani ma
chi resta ha ombre
per ogni suono un’onda a precipizio
s’accende minacciosa nella fuga.

*

Puoi udirne il latrato
lungo la ferrovia. È diventato
simile negli anni
all’oggetto che lo domina.
Lunghi ululati portano i treni,
ad uno ad uno li intuisce
nel loro perentorio scandire
ora per ora le giornate.
Un vile?
La strada e la fedeltà
hanno il sapore del disastro.
L’ho battezzato con diversi nomi.