IL ROSSO E IL NERO
anno 6, numero 12, aprile 1997
poesia e critica, pp. 75-78

 commento critico

Marco Ercolani

Le strategie della tela

   Delicato in precisione e Un grammo di respiro ci mostrano subito una fra le ossessioni primarie e determinanti della poetica di Elio Grasso: il rapporto fra il corpo della scrittura e la lontananza della mente. “Sei il profilo che disegni / e la mente presa nel contrario, / un dolore più sensato”. Una ferma attenzione al “profilo” da “disegnare” suggerisce il gesto della mano che scrive, impegnata a comporre versi sulla pagina; ma la “mente è presa nel contrario”, si allontana da questo gesto diretto, lo rende ambiguo, come se solo in questa inquieta ambivalenza, per la poesia, potesse esistere “un dolore più sensato”. Il dolore di questa ambiguità e la negazione dello stesso dolore è molto antico, nella poesia di Grasso. Dopo le prime plaquettes, in cui fare versi era un atto molto lieve, una gioia di avventurarsi nel mondo delle parole a riscoprire delicate corrispondenze con un universo fatto di minimi eventi, Grasso si trova, nella prova della maturità, con l’Angelo delle distanze (1990), a “costruire” il suo sistema poetico come un complesso e cristallino edificio di simmetrie.
   La parola poetica di Elio nasce come un “universo altro” dove nomi, verbi, aggettivi, mutuati dalla lingua comune, acquistano una loro risonanza misteriosa, diventano oggetti opachi, intransitivi, indefinibili.
   La trama della lingua si trasforma in una strategica “tela di ragno”, una membrana verbale elastica e rigorosa, al tempo stesso fermissima e ariosa, in cui smorzare, deviare, trasformare, talvolta catturare, il pieno impulso al canto. Vediamo formarsi una rete intrecciata e intessuta in mille diramazioni e biforcazioni in cui alla logica cristallina della forma corrisponde l’elusività, quasi ostile, del contenuto. “Femminile quanto le pietre con le ossa / E le figure che dimostrano il naturale / Uso del mondo che amiamo, levandolo / dall’ultimo tono che mai difenderemo, / Volta celeste della parola già scritta”.
   Da grande syntaxier, Grasso non predilige l’esplorazione del tessuto fonetico delle parole, anzi se ne disinteressa con disinvolta “sprezzatura”. Mago dell’enjambement, allinea sequenze di versi in cui le singole parole, emotivamente neutre, trovando legami l’una con l’altra, trasformano la pagina in un misterioso minerale composto di parole che sembrano schegge di lontane meteore. Questo “disegno poetico”, nato nella cifra del pudore e della cancellazione del pathos, usa le maschere di una lingua ermetico-simbolica che ci ricorda i paesaggi metafisici di John Donne o di Wallace Stevens: ma l’apparente ermetismo è solo una superficie ingannevole, che trattiene le parole come trattiene le emozioni di cui sono veicolo. Ne scaturisce una vera e propria “costruzione della mente”, paragonabile a una personale Wunderkammer, a un singolarissimo Paradiso artificiale rigorosamente simmetrico, determinato da un ordine vertiginoso e calcolato. Un termine astratto come “onestà” e uno concreto come “ardesia” si equivalgono e vibrano nello stesso registro espressivo, rinunciando alle vibrazioni dei loro significati. “In quel ronzio crescono verbi / Che voltano pagine ingiallite / Al rimedio colto per volontà”. Una pagina poetica di Grasso, a qualsiasi lettore, può apparire come un ronzio appena percettibile, un oggetto elusivo e infruibile, che galleggia nel bianco della pagina e non lascia scie. Qualcosa di trasparente e di curvo, come un cristallo che non rifrange nessuna luce, o un reperto misterioso, tradotto da un’altra lingua, che abita le parole in cui si esprime come un intruso. Il discorso ci porterebbe lontano: cosa vuole comunicarci questa poesia dall’apparenza metafisica ma il cui oggetto non è per nulla metafisico ma si rivela nel “fisico intrecciarsi” del testo?
   “In questo disserrare la soglia, / in questo continuo desiderio / d’un principio simile alla pietra / – al suo ultimo ferire ‒ / lascia la casa, il cardine / che ancora ci divide dal crollo: È terra la sottrazione /all’esercizio, alla ricerca: / aspra nella parola, mai placata. / Unito a quei resti / sei compagno, salvo nel grido”. Questi versi, tratti da Il soffio della terra (1993), non chiedono di essere compresi né per il paesaggio interiore che descrivono né per le emozioni che suscitano. Sono costellazioni di parole che ritrovano una loro armonia nel trobar clous della sintassi che le collega. Si potrebbe azzardare: è un’armonia musicale. Ma la “musica” della poesia grassiana è molto particolare: non suggerisce nessun strumento adeguato, come l’Arte della fuga bachiana, e non vibra di accenti definibili. Il suo tono, “delicato in precisione”, ha qualcosa di astrale e di quotidiano insieme. E la musica è leggera, ipnotica, quasi insonora; è un unico timbro, modulato ad altezze diverse, come, in una celebre parabola zen, il suono prodotto dall’applauso di una sola mano.
   In questo universo, che conosce troppo bene le complesse strategie della simulazione e della dissimulazione, il poeta usa la parola come un pittore cinese tratterebbe il segno grafico: mostrandone la bellezza pittorica e nello stesso tempo l’irrimediabile vuoto di senso. Le sue sequenze hanno spesso una movenza pittorica, come lievi contrasti in bianco e nero, come nuvole tracciate su fogli di carta di riso. E dire che siano nuvole è già un azzardo, un’immaginazione del lettore. Si tratta, probabilmente, solo di alcuni vapori nel bianco, di segni neri fissati nel candore del foglio. Come in una partitura di John Cage, il testo di Grasso è seriale, e tende a non terminare mai. Si articola in frasi brevi, modulate con parole diverse, ma dove ogni frase sembra continuare la precedente o la successiva in rispecchiamento interminabile e naturale, mai favoloso. Alcuni versi sono icastiche sentenze, come in Delicato in precisione: “Un contrario di pioggia per noi / avrà la sete / i morti e del tempo / qui reciso, voluto come resto d’infanzia”. Oppure sono oracoli misteriosi, come in Un grammo di respiro: “Nella stessa terra gettarsi come fratelli, / lasciare che la pettinatura / ci ricordi le ore in cui eravamo / creati.” E allora, cosa possiamo dire, di chiaro, su questa poesia di così “oscura” chiarezza? Forse nulla. Ma un sospetto rimane che dalla tela di queste parole, gettata come un sipario davanti ai nostri occhi di lettore, da questa rete di versi che il poeta ci consente di leggere, noi possiamo intravedere righe invisibili, che scaturiscono dalle maglie della rete, volente o nolente l’autore: e queste righe ci parlano di un diario intimo che ha più le connotazioni elegiache dell’io lirico piuttosto che il tragico sapore di un viaggio agli inferi. Così testimonierebbe almeno il volume di poesie e prose, La prima cenere – Conservatori del mare (1994). La pacata e cristallina struttura formale de La prima cenere si rivela, nel testo successivo, come un “sogno della forma”, un miraggio fatto di parole ipnotiche e svianti, nel quale si insinuano immedicabili ferite di cui non si può più tacere. La “parte oscura” di questo miraggio è il diario privato e tenerissimo che il poeta ha sempre voluto scrivere ma che aveva nascosto in un edificio di parole, subdole, deliziose, astratte, come in un arazzo che ora è diventato trasparente. Trasparente a qualche verità? E quale? Non potremo mai saperlo del tutto: possiamo intuirlo, se sappiamo viaggiare dentro e intorno alla stretta trama di parole che il poeta ha annodato e annoda attorno al suo discorso, per nasconderlo e rivelarlo.