IL ROSSO E IL NERO
anno 6, numero 12, aprile 1997
racconti brevi, pp. 6-12
Fabrizio Coscia
L’assedio
La prima volta, ad annunciare la caduta delle pietre, c’era stato un tonfo, subito dopo una frana di terra che veniva giù, e infine uno schiocco, come un colpo di frusta nell’aria. Poi, la casa era piombata di nuovo nel silenzio, rotto soltanto dai rintocchi regolari dell’orologio a pendolo (La loro casa ampia, con ombre lunghe e frescure estive, i quadri incorniciati coi ritratti d’altri tempi, i mobili con le specchiere nerofumo e i tappeti persiani che attutivano il rumore dei passi).
Il mattino seguente Leonora poltriva nel letto tra il sonno e la veglia. Amava quei pigri risvegli nei quali prendeva coscienza del mondo a piccole dosi, senza sbalzi: s’attardava ad ascoltare i rumori familiari che provenivano dalla cucina, o quelli dell’acqua che scorreva dal rubinetto del bagno quando Antonio si faceva la barba, e indugiava ancora con gli occhi chiusi, senza decidersi ad alzarsi, al bel calduccio delle coperte e tra il profumo fresco delle lenzuola appena lavate. Quel giorno lei non sapeva ancora niente delle pietre, ma dopo un poco cominciarono a pioverne delle altre, e con una frequenza sempre maggiore, finché s’arrivò al punto che non passava giorno senza che ne cadesse qualcuna. All’inizio Leonora non ci badò più di tanto, incoraggiata soprattutto dal fatto che Antonio non ne parlasse mai, comportandosi come se non s’accorgesse di nulla. Allora, come ogni mattina, lei si organizzava la giornata: poteva uscire per negozi, andare dal parrucchiere, o fare un salto a San Giorgio dalla madre e tenerle compagnia nel tinello di casa, seduti sul divano con i cuscini ricamati, e le finestre con le tende di velluto tirate (era tanto che non l’andava a trovare, ma poi avrebbe dovuto sorbirsi le sue solite prediche, e che lei non si faceva mai vedere, e che l’ingratitudine dei figli, e via dicendo). Oppure poteva telefonare a qualche amica, non Martina però, era così deprimente con quella storia del jogging a via Caracciolo, la palestra e le diete macrobiotiche, piuttosto molto meglio Ludovica, se non altro potevi ascoltare qualche pettegolezzo o giocare una mano di carte francesi e il pomeriggio se ne volava via senza nemmeno rendertene conto, o infine si ricordava di un appuntamento con la sarta. Questo, soprattutto: le piaceva da morire spendere i pomeriggi a provarsi i vestiti, lasciarsi prendere le misure con il metro, accorciare un lembo, accomodare una balza, appuntare un risvolto con gli aghi e gli spilli. Adorava quella piccola bottega immersa nel rumore delle macchine da cucire e nell’odore degli abiti appena confezionati; ammirava le diverse qualità delle stoffe esposte sugli scaffali: la pastosità della lana, la lucentezza della seta, la docilità del lino. E quando usciva da li, camminando per strada, provava una piacevole sensazione di leggerezza al pensiero che in qualche posto, a quell’ora, mani esperte stavano lavorando per la sua vanità.
Ma poi, c’era poco da fare, davanti all’ammasso di pietrisco e di schegge che lentamente stava sommergendo il loro terrazzo, Leonora cominciò ad allarmarsi, anche se cercava di non darlo a vedere, per non urtare la suscettibilità del marito, tanto che presto non ebbe più il coraggio di mettere piede fuori della veranda, per paura d’essere colpita. Il guaio era che spesso capitava che se ne stesse a casa senza far niente, sfogliando riviste di moda o guardando i programmi alla televisione, e allora le giornate non passavano mai e si sentiva nella testa un peso insopportabile. Era in quei momenti che le pietre la spaventavano più di tutto: tremava a ognuno di quei colpi improvvisi e di quei ruzzolii che sentiva venire dal terrazzo e si chiudeva in camera, o spalancava finestre che affacciavano sulla strada per lasciare che la casa fosse invasa dai clacson assordanti, dalle sirene della polizia e dal frastuono dei motorini, oppure accendeva la radio a tutto volume, finché non tornava il marito. La notte, poi, i rumori assumevano un riverbero addirittura sinistro: il sonno di Leonora veniva scosso da un fragore improvviso e non c’era niente di peggio che essere svegliati da quegli echi minacciosi, che a volte facevano pensare a un confuso parapiglia, altre volte a uno scoppio, o a un rullo di tamburi. In quei casi lei se ne restava zitta zitta, nascosta sotto le coperte, e aspettava con ansia di potersi riaddormentare al più presto, sforzandosi soprattutto di non immaginare ciò che succedeva di fuori, nel loro terrazzo.
Antonio, invece, andava e tornava dal lavoro, i capelli impomatati, le scarpe di cuoio lucide e ogni giorno una cravatta diversa dall’altra, tanto che a vederlo si sarebbe detto che tutto potesse continuare come sempre. E mai, mai che ci scappasse la minima allusione alle pietre. Questo, alla lunga, aveva finito con l’irritare Leonora. Tanto più che nel terrazzo, giorno dopo giorno, l’assedio continuava imperterrito. Pietre di tutti i tipi e di tutte le forme cadevano con calcolata precisione, e di tanto in tanto Leonora s’accostava alle finestre della veranda a osservare ciò che restava del loro terrazzo sepolto sotto lo sfasciume di sassi e calcinacci che venivano dall’alto. Senza che se n’accorgesse, la sua anima s’andava sviluppando in una gabbia di tristezza, come una lumaca affagottata nel suo guscio, e a volte, soprattutto certe sere dolci che presagivano l’estate, si sentiva malinconica. Guardava il marito con occhi inquieti, assalita da un dubbio, oppure con sguardo fisso nel vuoto, distratta da qualche pensiero flebile che subito si sfilacciava nel nulla. All’improvviso gli intimava di tacere con un gesto della mano. Una grossa pietra cadeva nel terrazzo con un rombo assordante, poi si sentiva un calpestio informe, una pioggia ghiaiosa e leggera. Antonio riprendeva il discorso alzando il tono di voce, ma qualche incrinatura rivelava il suo nervosismo. Allora provava a scherzare e a raccontare storie divertenti, ed erano sempre le stesse, erano anni che le raccontava e che dopo scoppiava a ridere ogni volta per ciò che diceva. E rideva in quella sua maniera inconfondibile, a scrosci e singhiozzi, cosi contagiosa da coinvolgere anche la moglie che rideva pure lei, a mezza bocca, e con gli occhi che le diventavano piccoli piccoli.
Leonora, da parte sua, addebitava quei momenti più cupi soprattutto alla noia delle giornate passate senza far niente, che la rendeva così inerme davanti alla paura delle pietre. Era per questo che cercava sempre qualche distrazione, qualunque cosa la tirasse fuori da casa. Anche le amiche s’erano accorte del suo cambiamento d’umore. Di fronte alle loro domande lei non osava certo accennare alle pietre, ma rispondeva in modo vago, lasciando intendere tutto e nulla. Allora le consigliarono di trovarsi un amante:
– Che orrore, una casa così grande e tu te ne stai tutto il tempo da sola, – le disse una volta Martina.
Era vero, ammise Leonora. In fondo ciò che le appariva intollerabile era proprio quello: non tanto le pietre, quanto piuttosto l’idea di tutto quel vuoto dentro la casa costretto a subire l’eco aggressivo di un tonfo; di quello spazio di silenzio usurpato da uno schianto inatteso. Era pure vero che la casa conosceva anche dei momenti di calma – ed era sempre durante le sonnolente controre di quella primavera indolente, quando un soffio di vento sollevava le tende e le tarme facevano scricchiolare i mobili del salotto, le ore sospese in un vuoto di cristallo, senza venature ‒, ma quelle tregue finivano sempre per precedere un attacco più violento del solito, così che Leonora aveva imparato a diffidare dei silenzi improvvisi, di quella quiete carica di tensione. Tuttavia un amante non sarebbe bastato a cacciare via lo spavento. Leonora ci aveva fantasticato su tante volte, durante i pomeriggi passati da soli e una volta s’era pure lasciata sedurre da un vecchio compagno di liceo. Un pacco di aspirine comprate in una farmacia di turno una domenica pomeriggio li aveva fatti incontrare per caso, e da allora aveva attaccato a inventarsi raffreddori, cefalee e mal di pancia pur di rivedere quel sorriso da bravo ragazzo dietro al bancone della farmacia. Spesso si davano appuntamento in Villa Comunale, per andarsene insieme a passeggio, tra i bambini che tiravano calci ai palloni e i cani che scorrazzavano felicemente increduli di ritrovarsi senza guinzaglio. Peccato che lui avesse un antipatico odore che ricordava l’acido fenico, o perlomeno così sembrava a Leonora, forse suggestionata dall’idea che le sue mani dalla mattina alla sera manipolavano intrugli, filtravano sieri, distillavano medicine, dosavano droghe. Ma il giovane farmacista era cosi gentile che accanto a lui Leonora sentiva la propria anima come se fosse pronta a rompersi in mille pezzi, e una cosa così non l’era mai successa con Antonio. Allora s’incantava a figurarsela, la sua anima, simile a una di quelle porcellane di Capodimonte che una volta avevano visto insieme al Museo, e che le erano piaciute, eccome, e avrebbe tanto voluto averne qualcuna nella vetrina del suo salotto, per far bella figura con le sue amiche quando venivano a visitarla. Eppure Leonora non s’era stupita più di tanto quando tutto si risolse in un’avventura piuttosto mortificante. L’audacia di ricevere un uomo nella propria casa all’inizio l’aveva eccitata e inorgoglita, ma dopo s’era sentita a disagio tra le sue braccia, e l’odore di fenolo che emanava il suo corpo le era diventato tutt’a un tratto insopportabile, da vomitare. Forse era stata colpa delle pietre, chissà, tutte quelle maledette pietre che aveva sentito cadere nel terrazzo, mentre lei era sotto di lui, supina ammaccata, in tutto simile a un sacco svuotato. Da allora aveva smesso di crogiolarsi in quelle fantasie adulterine, ma questo non poteva confessarlo alle sue amiche, perché non avrebbero potuto capire, dal momento che c’erano di mezzo le pietre, perciò decise d’abbandonare una volta per tutte davanti a loro quell’espressione mesta che le rimproveravano sempre. Ma un giorno una pietra più pesante delle altre cadde dritto sulla finestra della veranda. Le schegge di vetro si sparsero per il pavimento e sui fornelli della cucina, e Leonora per spazzarle via tutte e pulire per bene si ferì pure a un dito che le gocciolò di sangue. Non fece nemmeno in tempo a correre in bagno per medicarsi, che al suo ritorno trovò anche l’altra finestra in frantumi e la veranda piena di pietre. Quando Antonio tornò dal lavoro glielo disse già sulla porta:
– Hanno invaso pure la veranda, – lo avvisò con una ruga severa in mezzo alla fronte.
– Lo supponevo, – rispose lui.
Era la prima volta che ne parlavano senza sottintesi, e Leonora ebbe l’impressione d’aver rotto un patto segreto. Solo allora comprese quanto fosse stato giusto il lungo silenzio di Antonio, la prudenza di non nominare qualcosa che era li, a due passi da loro, ma il cui oltraggio nessuna parola sarebbe riuscito a evitare, o soltanto a spiegare. Antonio attraversò il corridoio, e Leonora lo segui con lo sguardo finché non scomparve dietro la soglia del salotto. Decise che quella casa avrebbe avuto bisogno di fiori. Perché non ci aveva mai pensato? Era così triste una casa grande e senza fiori. Si ripromise di comprarli per l’indomani: tanti fiori colorati in ogni angolo della casa. Già se l’immaginava: rose soprattutto, ma pure tulipani, garofani, orchidee, in un’allegra policromia di rossi, d’indaco e di gialli, alla faccia della tristezza. Quando raggiunse il marito nel salotto, lo trovò in vestaglia seduto sul divano, le gambe dritte con i piedi poggiati sul tavolino e un bicchiere di cognac fra le mani. Ebbe l’impressione di masticare la polvere tra i denti e di sentirsela in gola, una colla viscosa che non riusciva a mandare giù. Questo era uno dei principali svantaggi che comportava la caduta delle pietre. Da quando avevano cominciato ad ammassarsi nel terrazzo, infatti, la polvere era penetrata in ogni parte della casa, posandosi sui mobili, sopra i tavoli, negli armadi e perfino fra le lenzuola, diffondendo per tutta la casa un odore mucido di terra, misto a puzza di piscio.
– Domani compro dei fiori, – disse al marito.
Antonio fece sì con la testa e s’ingollò una lunga sorsata di cognac, vuotando il bicchiere. Leonora si sorprese a domandarsi quale sarebbe stato il loro futuro, adesso che finalmente avevano parlato delle pietre. Avvertiva una tensione quasi spasmodica che li separava in quel momento, come di fronte a un’inaspettata resa dei conti. Avrebbe tanto voluto ricongiungersi a lui, abbattere quella parete d’incomprensione, gridargli che no, non era tutto perduto, che lei aveva ancora fiducia, e avrebbe voluto dirgli tante altre cose, le parole le salivano in gola tutt’insieme, una cascata impetuosa e gorgogliante, ma il silenzio di Antonio era pieno di rancore, e allora lei gli disse soltanto che bisognava dare la carica alla pendola che s’era fermata, e Antonio rispose che se ne sarebbe occupato l’indomani, prima d’uscire. Improvvisamente, ciò che Leonora provò annaspando in quel penoso silenzio fu una cieca vertigine che l’attirava con forza verso il basso e tutto quell’inutile attendere s’era tramutato alla fine in una muta sconfitta.
Quella sera andarono a letto presto, ciascuno col peso della propria coscienza svilita, ma nonostante fossero entrambi desiderosi d’un lungo sonno prodigo di conforto, rimasero svegli per tutta la notte, per via delle pietre che cadevano nella camera da pranzo e rotolavano per il corridoio come bocce di legno.