IL ROSSO E IL NERO
anno 6, numero 12, ottobre 1997
saggi: l’Ombra, pp. 53-63
Rocco Ronchi
Dire l’ombra
Sulla “ermeneutica della poesia”
“Dice verità chi dice ombra”. È un verso di Paul Celan, non il detto di un filosofo. Un simile enunciato sembra anzi appartenere per principio ad uno spazio extra-filosofico. L’ombra è infatti ciò che la verità dissipa, il fondo oscuro della caverna dal quale bisogna evadere per giungere nella pura luce. Nietzsche, il presunto “rovesciatore” del platonismo, era ancora fedele a questa metafora fondativa quando fissava nel “grande meriggio”, l’ora delle ombre più corte, l’appuntamento dell’uomo abbandonato da Dio, e dalla sua perdurante ombra, con un’assurda libertà.
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Nel suo verso Celan nomina invece insieme la verità e l’ombra. Ora, dire la verità, è quasi inutile ricordarlo, è il compito esclusivo del filosofo. Assumendosi questa responsabilità, egli manifesta di appartenere ad un’illustre schiatta. Come l’aoidos, con il quale ha dovuto fin dall’inizio contendere, come il profeta egli è il testimone (histor) di una rivelazione che non gli appartiene. A differenza però dell’arcaico “maestro di verità”, che parlava theia moina, per invasamento divino, il filosofo sa rendere ragione della propria testimonianza in una parola originariamente dialogica, ma ben presto votata all’Uno come alla sua sola destinazione – parola universitaria, parola monologica non corrotta dall’ombra dell’ignoranza. Quando Platone, nella Repubblica, vara ufficialmente la parola “filosofia” lo fa proprio in opposizione ai dicitori dell’ombra ed ai suoi amanti (“filodossi”), gente perduta tra teatri e spettacoli, sedotti dalle apparenze e intossicati da immagini capaci di solleticare la loro parte peggiore, quella patetica, affamata di dolore e di visioni sanguinarie.
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Celan sentenzia invece che dire la verità è dire l’ombra. E dal tenore della sua affermazione non sembra affatto che si tratti semplicemente di trovare per l’ombra uno spazio di dicibilità autonoma accanto al dire veritativo. Questo semmai è stata propria la sfida specifica raccolta, anche se non sempre vinta, da chi, dopo Parmenide e l’astuta sofistica da lui ispirata, ha provato a rendere possibile – dicibile cioè senza contraddizione – ciò che il vecchio venerando e terribile sembrava aver escluso: il chiaroscuro del divenire e delle sue ombre oscillanti tra essere e non essere. No, Celan è assolutamente preciso. Non si tratta di dire anche l’ombra accanto alla verità, fondandola su di essa come sulla sua causa soprasensibile. Si tratta di dire la verità, cioè di dire l’ombra. La verità è l’ombra. E anche questa identità va pensata fino in fondo. Celan infatti non sta in alcun modo sostenendo che non c’è altra verità che l’ombra. Non è un apologeta del gioco dei simulacri lasciati in libertà dalla morte del Dio-fondamento. Di troppo dolore reale è stato testimone per potersi consolare con simili postmoderne amenità. Non è l’assenza di significato trascendente e l’autonomia del testo (di quell’ombra del Logos, come lo chiama Platone) che qui viene richiesta e postulata. Dire l’ombra è proprio dire la verità, non denunciarne l’assenza. L’ombra è la verità, proprio quella verità con la maiuscola a capolettera, che i filosofi hanno sempre onorato con la loro retorica.
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Si potrebbe uscire da questo groviglio di paradossi dicendo che Celan è un poeta, magari un poeta del tempo disertato dagli dei, e che il suo verso non deve essere utilizzato filosoficamente, cioè come conoscenza. I versi sono versi e non possono prescindere dalla loro forma. La filosofia è prosa e non può prescindere dalla sua apparente assenza di forma. La filosofia è infatti concetto e il concetto è puro contenuto, noema, come insegna Husserl, in ultima analisi indifferente allo strato espressivo che lo riveste. Molto semplicemente questo significherebbe ribadire un consolidato luogo comune del pensiero: mentre la filosofia, se è autentica scienza e non chiacchiera, deve essere per definizione traducibile (la verità non può avere idiomi), la poesia è in sé intraducibile (l’ombra è in sé idiomatica, singolare). Ciò che la renderebbe infatti eventualmente traducibile è il suo inevitabile passaggio attraverso la prosa, vale a dire attraverso le forche caudine della dissoluzione della sua essenza formale.
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In realtà il verso di Celan dice qualcosa di fondamentale proprio sul cosiddetto “dialogo” tra filosofia e poesia, sulla necessità di questo intreccio e sulle modalità assolutamente inedite che esso assume nella contemporaneità. La parola “necessità” va intesa qui nel suo senso proprio, quello chiarito da Aristotele all’inizio della sua Metafisica. Aristotele infatti per chiarire il significato della parola “filosofia” fa accenno ad una verità che, lungi dall’essere liberamente cercata dall’uomo, lo cerca, lo stana, lo costringe con la sua autonoma manifestatività al “risveglio”. E non sempre col suo assenso. La filosofia non è, egli scrive, iniziativa umana, ma iniziativa quasi persecutoria della verità stessa. Se il dialogo tra filosofia e poesia è necessario, deve allora essere possibile trovare in filosofia, nella forma assunta dalla discorsività filosofica contemporanea, il medesimo di quanto sostenuto dal verso di Celan. Se la filosofia contemporanea non si è del tutto ridotta a chiacchiera erudita, se essa continua ad essere corrispondenza ad un appello, se essa è insomma scienza della verità nel senso dal genitivo soggettivo, la filosofia deve contenere in se stessa al suo più alto grado di elaborazione questo appello della verità ad essere cercata nella dimensione dell’ombra. Anch’essa deve cioè ripetere a suo modo che “dice verità chi dice ombra” e lo deve confessare quasi controvoglia per onorare il contratto stipulato fin dalla sua origine con la verità. Con ciò sarà anche sondato il terreno sul quale getta le sue radici quell’intreccio tra discorsività filosofica e poesia che caratterizza buona parte della riflessione contemporanea. L’incontro tra filosofia e poesia non può essere infatti il risultato della congiunzione di due tradizioni linguistiche. La filosofia non deve semplicemente credere di trovare nella poesia ‒ o, più precisamente, nel mito del linguaggio poetico – il proprio completamento, né la poesia, incerta quanto al suo statuto, illudersi di raggiungere una stabilità nella teoria. Piuttosto in quel dire la verità come ombra e l’ombra come verità, “filosofia” e “poesia” spariscono come tali, nella loro consolidata distinzione (forma/ contenuto), per retrocedere non nell’indistinto della loro confusione (il “poeta-filosofo” ed il “filosofo-poeta”), ma per corrispondere più decisamente alla vocazione che le ha sempre animate. Al termine di questa riduzione ciò che resta non è dunque un duplice silenzio, l’azzeramento del dire veritativo del filosofo e il venir meno di quel gioco d’ombre che sembra essere il poetico, ma il paradosso di una verità che non può esprimersi se non riattivando la non verità che l’accompagna (appunto come un’ombra).
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Se si prescinde da questa simultanea conversione del poetico e del filosofo nel luogo della loro provenienza e della loro comune dissoluzione come forme autonome, l’intreccio tra filosofia e poesia non potrà in alcun modo salvarsi dal sarcasmo di chi vi vede, da un lato, un neocontenutismo indifferente alla forma specifica del poetico, dall’altro un tentativo ingenuo da parte del poeta di assicurarsi le benedizioni della teoria. Scrive infatti Edoardo Albinati denunciando gli eccessi ermeneutici di cui sarebbe stata vittima, a suo giudizio, la poesia di Giorgio Caproni: “Diceva il poeta che una volta vecchi, i filosofi si inchinano alla bellezza. E ciò si è puntualmente verificato nell’epoca storica della vecchiaia della filosofia, quando una buona e generosa porzione della ricerca filosofica si è volta all’interpretazione del testo poetico. Con Heidegger… ma non voglio cominciare quel genere di discorso. Dico soltanto che da quel momento in poi, gli inchini sono fatti reciproci, e il rapporto tra poesia e pensiero si è fatto incredibilmente cerimonioso, tutto uno scambio di complimenti sublimi contribuendo (…) alla creazione di una nuova retorica e di un linguaggio settoriale di cui si può prendere visione aprendo a caso qualsiasi rivista di poesia, oggi, in Italia. In cambio del materiale prezioso che fornivano all’ermeneutica, i poeti ottenevano una specie di benedizione o un lasciapassare per il mondo della ‘serietà’. Naturalmente, questa trasumanazione avveniva il più delle volte in barba a qualsiasi ‘serietà’ filologica, ovvero nel nome di un neocontenutismo piuttosto volgare”. Poco oltre, per ribadire l’irriducibilità della letteratura alla “ricerca del vero” aggiunge che “è la stessa essenza formale della poesia a costituire il paradosso di una verità che non può esprimersi se non attraverso il massimo ricorso alla menzogna, ovvero alle tecniche di rappresentazione. In altre parole, la poesia non può dire mai nulla che si incenerisca nel momento in cui viene violata la sua forma, come quei dipinti antichi che vanno in polvere quando si apre la tomba che li conservava: ma se la forma viene gelosamente custodita come tale ed esibita, allora non può che mentire”. Il corsivo è mio ed evidenzia lo snodo fondamentale dell’argomentazione di Albinati. Ciò che resiste all’assimilazione filosofica è la forma, l’andare a capo del verso invece del suo proseguire coerente nella (non-) forma della prosa.
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Ma nel momento in cui si rivendica all’essenza formale della poesia uno statuto ontologico ambiguo tale da farla sciogliere come neve al sole non appena mani troppo indelicate la vogliano afferrare (begreifen: comprendere come afferrare), si postula per la poesia la natura di un’ombra refrattaria per principio alla luce indiscreta del vero (“come quei dipinti antichi…”). Si presuppone la seguente situazione: la poesia come regno delle ombre, da un lato, e la filosofia come Aufklärung, come esplicitazione impudica, dall’altro. Se però al culmine della filosofia contemporanea, come suo compimento e sua autodissoluzione si trovasse una parola che, in quanto parola della verità, è parola dell’ombra, allora la questione dell’ “interpretazione del testo poetico” dovrebbe essere posta su basi nuove. Non due insicurezze che si stampellano a vicenda cercando conferme e benedizioni reciproche, ma una medesima esperienza che, nell’orizzonte di diverse tradizioni, affiora alla parola. Alla nozione “filosofica” di interpretazione come traduzione e dissoluzione dell’essenza formale della poesia nella prosa del pensiero si dovrebbe cosi sostituire quella di corrispondenza symballica (nel senso originario del symbolon) tra pratiche linguistiche istituite dalla medesima apertura di senso e che in modo diverso corrispondono fedelmente a questa apertura. Si tratta forse ancora di “traduzione”, ma nel senso rinnovato che a questa parola dava Walter Benjamin: “Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi unire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo (dell’originale) modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci di uno stesso vaso ‒ frammenti di una lingua più grande”. L’originale non è il testo poetico che una teoria privata del suo tradizionale oggetto (Dio) si limiterebbe a saccheggiare. L’originale è “la lingua più grande” che tanto il testo poetico quanto l’interpretazione filosofica, senza somigliarsi, ricreano nella propria lingua. Se tale è la natura dell’intreccio si dovrà però ritrovare nella prosa del pensiero, come prosa del pensiero, ciò che Albinati chiama l’essenza formale della poesia. Il pensiero deve mostrarsi capace insomma del suo specifico enjambement.
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Ma questa parola che dicendo la verità dice l’ombra e che dice l’ombra come verità è veramente l’ultima parola della filosofia quella che le permette di “ricreare nella propria lingua” l’essenza formale del gesto poetico? Per rispondere a questa domanda, non posso che estrapolare, correndo il rischio dell’arbitrarietà, un’altra frase, tratta questa volta da un saggio di un filosofo che, se non fosse stato troppo presto interrotto da quella assoluta contingenza che è la morte, avrebbe forse dato al nostro secolo un più sicuro orientamento. La frase è di Merleau-Ponty ed è contenuta nel saggio Il filosofo e la sua ombra (1959) nel quale si tenta un bilancio della fenomenologia husserliana. Scrive il filosofo francese: “Il compito ultimo della fenomenologia come filosofia della coscienza consiste nel comprendere il suo rapporto con la non fenomenologia. Ciò che in noi resiste alla fenomenologia ‒ l’essere naturale, il principio “barbaro” di cui parlava Schelling – non può restare fuori dalla fenomenologia e deve trovarvi il suo posto. La filosofia comporta un’ombra che non è assenza di fatto della luce futura” (corsivo mio). Una prima considerazione: in questo passo l’ombra – il non fenomeno, ciò che non si offre in una presenza intuitiva – ha perduto il carattere persecutorio che normalmente ha per il filosofo, non indica più un limite strutturale o momentaneo posto alla sua attività di Aufklärer. Come scriverà Derrida, sempre commentando l’ultimo Husserl, qui fa capolino “un’ombra fedele al movimento della verità” (corsivo mio), non in contraddizione con esso. Non solo. L’ombra – ciò che resiste all’esplicitazione – è posta come situazione iniziale, costante e finale della riflessione fenomenologica. È ad un tempo ciò che la inaugura, ciò che l’accompagna e ciò nella quale essa si conclude. La filosofia, in quanto fenomenologia radicale, non può insomma per principio comprendere nel proprio sguardo panoramico l’origine di quello sguardo. La Hybris delle grandi filosofie idealistiche consisteva invece proprio nella certezza di ritrovare come atto della coscienza – come qualcosa di “posto” – ciò che ogni atto riflessivo della coscienza deve presupporre per poter aver luogo: vale a dire l’essermi dato di un “mondo”, di un “corpo vivente”, di una “prospettiva”, inteso come insieme di distanze che sono chiamato a percorrere, a riempire di significato, senza però averle scelte e ai cui orizzonti sono anzi vincolato da un legame o da un patto che costituisce per me un passato immemoriale e inevadibile. Merleau chiama altrove questo passato nel quale sono situato un “il y a” di inerenza al mondo, una fessura che mi rende già da sempre comunicante con esso, parte di esso, invece che suo spettatore disincarnato. Questa assegnazione originaria della coscienza ad una pluralità di dimensioni date (‘heideggeriano “essere-al-mondo”), la filosofia della riflessione lo scorgeva come limite, come ombra persecutoria che funesta la ricerca della verità, impedendole di essere quella scienza del tutto, quella trasparenza assoluta, che essa avrebbe invece dovuto essere. La verità non sarebbe insomma mai stata detta tutta, finché accanto ad essa restava il “principio barbaro”, un essere-al-mondo che resiste appunto all’esplicitazione totale sparendo, proprio come quei vecchi dipinti, non appena si tenti di farne un “oggetto” per la coscienza tetica. La presenza di questa ombra che si dissolve alla luce del sapere oggettivante le filosofie della riflessione l’hanno sperimentata innanzi tutto al cospetto dell’Altro, dello psichismo, dell’esperienza di cui ne va nell’ “uso della vita”…
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Se la filosofia, in quanto fenomenologia, è veramente fedele a se stessa, essa deve allora trovare il coraggio, secondo Merleau-Ponty, di compiere il passo decisivo, che è anche il suo “compito ultimo”, dal momento che con esso nessuna filosofia come scienza del tutto sarà dopo più praticabile senza palese ingenuità. La riflessione deve farsi radicale, capace cioè di andare alla propria radice e ritrovare così l’ombra come ombra, in quanto irriflesso che precede, fonda e circoscrive lo sguardo della riflessione istituendolo e, al tempo stesso, situandolo. La verità ultima della fenomenologia è la non fenomenologia, l’accadere (nell’ombra, nel punto cieco dell’occhio) del “mondo” che fonda post festum la possibilità di una riflessione tematica su ciò che nel mondo accade. Le cose, gli oggetti, gli enti, con i loro rigidi confini e le loro relazioni definibili, sono incontrati dalla flessione nell’orizzonte di questa esperienza, la quale come tale non è una cosa, un oggetto, un ente, ma è piuttosto una “dimensione” invisibile che fodera di sé ogni visibile. Questo invisibile sempre in ombra per il pensiero tematizzante è “più vecchio” della verità afferrata in piena luce da quel pensiero, è la verità della verità oppure la sua origine. Ha dunque ragione Celan: dice la verità, dice la “vera verità”, chi dice questa ombra. “La lingua più grande” di cui parlava Benjamin è questa (ultima) parola lasciata all’ombra.
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Ombra esprime con precisione ciò che in noi resiste alla fenomenologia, “il principio barbaro” che il vecchio Schelling opponeva al razionalismo assoluto di Hegel. L’ombra non è un essere massiccio e opaco, ma qualcosa che si situa a metà strada tra la notte dell’ignoranza che non si sa come ignoranza e il mezzogiorno di un sapere assoluto. Dante, nel XIX Canto del Paradiso (v. 66), definisce l’ombra come il portato della carne, il segno di una presenza al mondo che non è tutto ma che non è nemmeno niente, una presenza incarnata, gettata, che sconta il peso del suo essere situata proprio in questa piega del mondo (Fortini, sulla scorta proprio di questo passo di Dante, traduceva coraggiosamente con “ombra” la pesanteur di cui parla Simone Weil a proposito della creatura…) Dopotutto, a ben vedere, si tratta semplicemente di rimanere fedeli alla filosofia, alla sua vocazione, quella che nella meraviglia e nel “so di non sapere” fissava la proprio perdurante origine. Si tratta insomma di far sì che la discorsività filosofica torni ad essere la parola lasciata al thaumazein, alla scoperta angosciata e stupefatta che “c’è (il y a) un mondo, o meglio c’è (il y a) il mondo e che di questa tesi costante della mia vita non posso mai rendere ragione” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione).
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Si apre naturalmente a questo punto il problema del dire un’espressione di questa presenza incarnata che non sia ipso facto sua riduzione a tema, a detto di un pensiero oggettivante. E lo “scarto” tra riflessione e irriflessivo, tra “mondo oggetto” e “mondo della vita” che deve affiorare alla parola se la fenomenologia, in quanto riflessione radicale, “consiste nel comprendere il suo rapporto con la non-fenomenologia”. La cosiddetta “svolta linguistica” della filosofia contemporanea deve essere compresa entro questo orizzonte aporetico. Ma soprattutto deve essere compreso a partire da questa necessità (da questo appello rivolto al filosofo dalla verità stessa) il volgersi sempre più frequente del pensiero a ciò che con una formula eccessivamente pacificata si potrebbe chiamare “ermeneutica della poesia” Nell’essenza formale del gesto poetico la filosofia radicale non cerca infatti che la propria essenza. Dovendo precisare, ne Il visibile e l’invisibile, la caratteristica di una riflessione radicale Merleau-Ponty scrive che questa non rifiuta più come sprovvisto di senso ogni enjambement, “ogni scavalcamento (enjambement) del mondo sullo spirito o dello spirito sul mondo? Questo enjambement, che diventa cruciale per una fenomenologia fedele alla propria vocazione, è la macchia cieca che affetta l’occhio dello spirito rendendolo però capace di vedere qualcosa, il dono inaugurale di mondo (di cui non si può rendere ragione) che deve essere ritrovato da una riflessione radicale come origine della verità. Giunta a questo punto, necessitata dalla radicalità del proprio gesto, la filosofia non poteva più ignorare il problema dell’espressione di questo enjambement, ovvero la sua lingua naturale: la poesia (Merleau-Ponty privilegiò quella specifica poiesis o demiurgia di immagini che è la pittura). Al tempo stesso la filosofia doveva però rivelare alla poesia e al suo gesto formale la sua natura non meramente estetica. Non poteva evitare di liberare l’ombra poetica dalla sua autointerpretazione come finzione, doveva ricordarle che essa ha a che fare con la verità, con quella verità ultima che non può che dirsi che come ombra, come evento fragile che si incenerisce “ogni volta che ne venga violata la sua forma”.
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Vi è dunque ben poco di “incredibilmente cerimonioso” nell’abbraccio tra poesia e filosofia. Quando esso è sincero (e ciò accade raramente) si rivela mortale per entrambe, per il preteso dire veritativo allergico alle ombre e per il preteso gioco di ombre senza sostanza. Ma è un rischio che poeti e filosofi accettano di correre per amore della “lingua più grande” – quell’amore che da sempre e per sempre è alla radice di ogni vocazione.
Paul Celan Sprich auch du (Parla anche tu), in Poesie, Mondadori, Milano 1976 (1972); Edoardo Albinati, Su motivi caproniani, in “Nuovi Argomenti”, 1994; Walter Benjamin, Sulla traduzione, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962; Maurice Merleau-Ponty, Il filosofo e la sua ombra, in Segni, Il Saggiatore, Milano 1967; Jacques Derrida, Introduzione a “L’origine della geometria” di Husserl, Jaca Book, Milano, 1987; Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965; Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani Milano, 1969