IL ROSSO E IL NERO
anno 5, numero 11, aprile 1996
racconti brevi, pp. 24-26
Paolo Mastroianni
Incontro
La incontrai in un giorno della mia giovinezza. Era timica e dolce, sola nella città del Nord in cui aveva trovato lavoro. Viveva in una piccola stanza di un pensionato: alcuni abiti e pochissimi oggetti portati da casa, perlopiù libri con cui aveva sopportato la severità da clausura dei suoi. Quella stessa severità che le aveva proibito di conoscere il mondo facendola venir su taciturna e discreta ma ricca di un giardino interiore fiorito. Cresciuta come un alberello avversato dal vento, all’improvviso, pochi mesi prima di andare, aveva rilasciato i nervi tesi per la prima volta da sempre. Le mani magre avevano finito di torcersi, stringersi, stringere cose, affondare le unghie in oggetti o nella sua stessa carne. Senza stupore aveva raggiunto una condizione di pace a cui aveva lavorato da sempre. Poi la notizia, aveva vinto il concorso, a breve avrebbe dovuto lasciare la casa paterna. Con la compostezza di sempre raccolse i capelli ondulati con una specie di pettine, mise assieme le poche cose e silenziosamente scomparve dall’abitazione di sempre.
Sebbene di poche parole, con il corpo magro che occupava senza invadenza solo piccoli angoli, la sua partenza lasciò una sensazione di vuoto e silenzio nei familiari e nei pochi amici.
Non subì sbalzi, continuò ad essere la ragazza senza illusioni di sempre. Adesso era libera ma nessuna tentazione o bisogno di riscattare i momenti che non aveva vissuto le stuzzicava la mente. La saggezza costruita durante gli anni nel silenzio della sua piccola stanza, la accompagnava assicurandole pace. Persona sola per sempre, anziché prendere l’autobus, la sera al rientro costeggiava beata il fiume che tagliava la sua nuova città. Ne ascoltava il fruscio, lo associava anche senza guardare a increspature densissime, lucide, piene di vita che sgusciavano libere e scomparivano per poi riapparire lontane. E in certi istanti in cui sentiva forte il contatto col fiume sostava, si affacciava al muretto: invasa da una sensazione di pienezza fissava l’acqua in un punto; lo sguardo poi si allargava, avvolgeva il fiume fino alla sponda opposta, si perdeva nell’acqua, la mente staccava il contatto col resto come fosse lei stessa un’appendice del fiume.
Ricordo i suoi capelli raccolti e quel visino pieno di candore con lo sguardo timido lievemente abbassato: una interruzione al grigiore e alla frustrazione di tutti gli altri sempre di corsa, tesi e incazzati.
Perso nel gelo di una città lontana migliaia di chilometri dalla mia terra indifferente ai miei passi, l’avevo cercata da sempre.
La notai dalla postura serena di una serata di Ottobre alla prima oscurità dell’inverno, mentre guardava ammirata i miei disegni. La avvistai da lontano la sera seguente immersa nella stessa immutabile aura di serenità. Riuscii a parlarle senza difficoltà perché buttai avanti il mio animo come mai avrei pensato di fare in un paese che quasi odiavo. Da allora la rividi ogni sera alla stessa ora, le regalai dei disegni, li amava; presi a sentirmi più forte, più bello all’interno. Addirittura dopo anni ripresi a guardarmi allo specchio. Mi sentivo beato, riempito da quell’incontro ormai quotidiano di dieci minuti. Riuscivo ad accettare meglio ogni cosa, a non sentirmi ferito durante il giorno dalla gente frettolosa che infastidita dalla mia pelle scura e dal telo che sottraeva un paio di metri quadrati al passaggio sul marciapiede, in silenzio o ad alta voce imprecava. Né mi importava se mi chiedessero hashish o riuscissero a trovare ridicoli i miei disegni. Ero contentissimo, più che appagato dal fatto che lei riuscisse a capirli, a scorgervi la mia solitudine. Il tempo di assimilare la gioia nuova e inaspettata di esistere e ne avrei fatti miliardi in cui le avrei comunicato il mio amore.
Tanto mi soffocava la gioia che esistesse che riuscivo a dirle poche parole, avrei voluto gridarle che ero pazzo di lei, che quei dieci minuti fiume con lei erano tutto per me.
Aveva capito il mio amore, aveva iniziato ad amarmi. Le ispiravo gratitudine, gioia silenziosa, tenerezza materna quando saltellante lungo il fiume accompagnavo i suoi passi.
Inverno, la pioggia ci aveva separato per giorni; una sera in cui il maltempo aveva concesso una tregua ci affacciammo al muretto, per tornare a vedere il fiume. Respirava più arioso di sempre, era più che mai vivo, espressivo, ebbi l’impulso di darle un bacio, di accarezzarle la mano. Distogliendo lo sguardo dal fiume per catturare i suoi occhi, vidi delle lacrime che le bagnavano il viso, e poi le sue mani tremavano, si contorcevano.
Capii che la sua solitudine non poteva essere infranta, la sua dolcezza era legata ad una pace che aveva raggiunto da sola. L’accarezzai sulla fronte, a fatica trovai un fazzoletto stropicciato nella tasca del jeans che stiracchiai a malo modo; le asciugai dolce il viso, un groppo forte mi strinse la gola; sarei voluto scomparire nel fiume, per sempre.