IL ROSSO E IL NERO
anno 5, numero 11, aprile 1996
poesia e critica, pp. 58-61
Dante Maffia
“Dal manicomio di Bisceglie”
Carmela
Ho sognato che camminavo
in un giardino silenzioso
e sui rami degli alberi riposavano
molti animali di diversi continenti.
La città era uguale a quella
delle parole di mio padre
che tornato dagli States
parlava e parlava di New York
come d’un immenso nido
di ricchezza e di violenza,
come d’un orizzonte oltre il quale
sta il buio. Eppure non vedevo i grattacieli
né la statua della libertà
né il Central Park. Il giardino
era verso la Sesta Strada e ai bordi
tanti comignoli – com’è possibile –
mi dicevo – che vi siano tanti
comignoli come in un paese
dove i caminetti bruciano d’inverno?
Gli animali sparirono, gli alberi
diventarono nani, cadde una pioggia
pesante e sporca, su un cartello
vidi scritto UFFICIO OGGETTI SMARRITI
ed era appena un cespuglio di tulipani.
Non ho mai voluto tuttavia
abbandonare quel giardino; lo custodisco
con le mie abitudini, le piante non hanno
bisogno d’acqua, qualche raro scoiattolo mi si posa
sul cuore e mio padre parla parla di New
York la superba immensa che tutto inghiotte
e rigenera tutto fa suo con la prepotenza
dei giganti, con le sue braccia inarrivabili
e quell’odore gelido di carote lesse.
Giuseppe
Cubi di ghiaccio
di legno triangoli
di pantofole di arazzi
curve infinite con abissi
da cui derivano altri cubi
non so come dirvi altri
perfetti simboli di geometria
che però avevano qualcosa
di troppo esuberante, non so,
un’aria umana, un’eco
di canto perduto, o, forse,
era soltanto l’ansia di mostrarsi
oltre le apparenze.
Quando provai a smontare i cubi
a tendere le mani ai triangoli
a pregare le curve d’essere più generose
e avere pietà delle mie scarpe,
beh, accadde una imprevista commedia:
s’indignarono, mi rimproverarono
dicendo ch’ero un dittatore e volevo
snaturare sempre tutto; pensassi
piuttosto di stabilire una data, un
luogo, una occasione. Allora
aggredii con tutte le mie forze,
chiusi gli occhi, sparai all’impazzata
frantumando ritratti, bottiglie di liquori,
soprammobili, libri. Era una danza
che nasceva da un rancore
sconosciuto. Mi trovarono con le mani
tra le mutande a coccolarmi. Lo scandalo
è che mi credono folle
e mi fa comodo. O forse no.
Vito
Sì, avvicinatevi, non sono cannibale
quantunque abbia divorato
schiere d’angeli, ma per difesa.
Ho un occhio di vetro e la testa
che sembra quella di un orango
ma se vi mettete a parlare con me
potrete conoscere storie infinite
di draghi che tranquillamente passeggiano
nelle strade, visitano musei; siedono
alle mense come normali individui.
Non si travestono neppure, dicono
che ormai si è abituati a tutto
e se tornassero a rivoltare favole
impastandole con sangue di bambini
e colate di membra, nessuno
vi farebbe caso. Eh, sono cambiate
tante cose da quell’esordio selvaggio,
da quell’arrancare a quattro zampe
e dire che nei libri è scritto
di crescite e conquiste. I cambiamenti
contano, le crescite, le conquiste
rendono perfino i draghi creature
senza sogni. L’importante è riconoscere
che il sole è il sole e il mattino è la luce.
Al resto pensa l’avvicendarsi delle stagioni.
Io ero tuono, il mio germoglio è secco
dopo le cerimonie. Ah, sì, il sapore
degli angeli era dolciastro, come quando
lo zucchero filato s’insapona. Avvicinatevi.
Maria
I nomi non si danno così,
tanto per riconoscersi uno dall’altro.
Lo dicevano perfino a scuola
anche se poi mi sono resa conto
che dalle pagine dei libri uscivano a frotte
vermi, insetti, bisce
alla conquista del mondo.
Quando lo raccontai a mia madre
mi disse di smetterla con le fantasie
e così resistetti, acquistai
le bombolette antiparassitarie
e le bustine di veleno da sciogliere
in due litri d’acqua tiepida.
Per un po’ ci fu calma; poi ripresero
a rincorrersi, soprattutto i vermi
uscivano a valanghe serrate
come quei soldati achei,
sotto le mura di Troia.
Ma non facevo in tempo a decimarli
che altri e altri si presentavano alla ribalta
più robusti, resistenti, indifferenti.
Io mi chiamo Maria, lo stesso nome
della donna che ha partorito Dio.
Sarebbe bello che voi mi comprendeste
e, tornati fuori, deste fuoco
al libraio di via della Disfida di Barletta,
quello con la barba inchiodata al mento
dalle code uncinate dei pidocchi.