IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 10, ottobre 1995
saggi: Il Viaggio, pp. 41-49

Mauro Minervino

Un vittoriano al Sud

   Quel mondo non era stato messo li per fare da sfondo, quasi fosse un paesaggio finto sotto un cielo di vetro colorato ‒ un diorama pittoresco – a tranquille passeggiate a piedi o in carrozza per tranquilli signori stranieri in vacanza.
   Se qualcuno vuole farsi un’idea della altezzosa miopia o della pietà consolatoria con cui per secoli, durante l’intera stagione esotica del Grand Tour, si è guardato al Sud, basterà sfogliare qualche atlante di incisioni e vedute, dipinti di paesaggi e pitture di genere, e poi scorrere le note frettolose di qualche viaggiatore straniero in vacanza. Nessuno escluso.
   Delude persino un Goethe pedante, attratto solamente dalle vestigia della Sicilia classica, “vero vertice” di quel suo viaggio al Sud.
   Dal Rinascimento all’età dei romantici le visioni del Sud sembrano incise con l’identica sublime stupidità; immagini senza profondità. Dettagliatissime eppure opache queste rappresentazioni di un mondo diverso e lontano quasi sempre vanno incontro ad uno strano effetto che sembra vanificare la perizia dell’incisore o la precisione del cartografo.
   Per secoli si è guardato il Sud solo come paesaggio, uno sfondo indistinto privo di autentiche presenze umane viventi. Un deserto della civiltà, dalla cui assenza si erano avvantaggiate furiosamente tutte le restanti forme viventi antagoniste dell’ordine umano, fieramente avversato dalla forza esorbitante dei tre regni della natura animale, vegetale e minerale. La gente restava sullo sfondo, soffocata e messa in un angolo da grandi montagne e vulcani, vegetazione lussureggiante, cataclismi, luci abbaglianti e acque marine in tempesta.
   Era sbagliata la luce e anche l’occhio era sbagliato. Più del Sud e della sua realtà – difficile come tutto ciò che è umano – sono certe raffigurazioni del Sud a rattristare. Queste delicate incisioni di città portuali e alte coste, queste note scritte senza alcuna curiosità in ciò che è umano – il Sud non era forse abitato dagli indigeni in costume del continente civilizzato? Un mondo sempre in bilico sull’orlo della storia, pronto a ricadere inerte nel baratro del non storico da cui sembrava emergere a fatica, trattenuto appena per un lembo della veste da quella ‘Grande Storia’ che da lontano si affacciava qua e là degnandosi svogliatamente e alzando il suo sguardo straniero un po’ più su della spalla del cartografo, dell’incisore e poi poco oltre la tendina del fotografo.
   La storia può falsificare lo sguardo e renderlo opaco, può alterare la capacità di vedere di un occhio pigro, può legare la mano e la mente di chi scrive e attraversa lo spazio di una pagina solo per ripercorrere il bordo di quella pozzanghera di Narciso che è l’immagine di se stessi e del proprio mondo, semplicemente negando l’altro che sta davanti a noi. Si possono dare nomi nuovi ed estranei a cose e persone o rivestire i luoghi di un’eco nostalgica, si può velare la luce accecante del cielo del Sud, trasformare tutto quello che resta là fuori di estraneo e disponibile in una monotona elegia in prosa, convinti che su quel mondo così diverso dal nostro è giunto il tempo debito del giudizio. Ma non spetta ai viaggiatori, al turista di pochi giorni o all’esota, di giudicare nulla. Nessuna vita può essere giudicata dall’esterno.
   Sentirsi ripetere per secoli che non si è più una cultura, che non c’è più una città, costringerebbe qualche nativo orgoglioso a rispondere più o meno così: giudicate le vostre città, scandalizzatevi della vostra cultura noi non siamo le vostre città e nemmeno la vostra cultura. Dopodiché, scrive Dere Walcott, avremmo avuto meno “Tristi Tropici” e “Afrique Fantòme”. A questa gente mancava il pudore e il coraggio di confessarsi che ovunque in viaggio si portava dietro il tarlo del proprio malessere, il loro proprio disagio della civiltà, sicché la loro prosa, il loro tratto di penna, affliggevano il paesaggio del Sud e la sua gente con la malinconia e il disprezzo di sé.
   Gli inglesi del secolo scorso, sbarcati al Sud erano convinti che siccome la Storia, “lo Spirito dei tempi e del mondo” di Hegel, migrando da un emisfero all’altro del globo portava presso di sé i suoi bei risultati, e dato che la storia dei popoli si giudica solo dai buoni risultati di questi, e la storia del Sud era (è) cosi lontana dallo Spirito, così geneticamente contraffatta, così deprimente nei suoi cicli eterni di vizi e di sangue sparso in faide e massacri, che laggiù per una ‘cultura’ fosse impossibile germogliare – non un buon albergo, il thè pessimo, ladruncoli e sporcizia ovunque. Nulla di buono sarebbe potuto nascere da quei quartieri sordidi. Nelle baracche di legno marcio, tra quelle vecchie palazzate cadenti, tra le strade incerte di quelle città polverose e torride, davanti ai moli di quei porti sgangherati, dentro quei latifondi ancora popolati di servi affamati e padroni istupiditi da un eterno feudalesimo. Senonché a sfidare il pregiudizio e l’ostilità reificatrice dei giudici stranieri restavano solo la luce e il sole, le rocce e il mare, quella vita torrida e disordinata, il vigore selvatico e dionisiaco della gente, la varietà dei gesti e dei sembianti: una specie di caos umano brulicante di vita che aspettava l’ordine di una creazione che tarda a venire per redimere quei moderni selvaggi del Sud.
   Era sbagliata la luce e anche l’occhio era sbagliato.
   C’è sempre qualcosa di estraneo e di sbagliato nel modo in cui una simile tristezza, per non dire di una “morbosità” dello sguardo, affligge certi inglesi eccentrici e perdigiorno. Tutti quei tisici illustri e stravaganti che fuggono dal loro mondo sciamando verso il Sud, e che pagandone comodamente il prezzo in travel cheque di una banca di Lombard, si credono “born in exile”. Forse questo esotismo al nero ha a che vedere più che con il solito fraintendimento della luce e del sole del Sud – più che con quel misto di invidia e di spocchia altezzosa che certi britannici non sono mai stati capaci di confessare di fronte allo spettacolo imbarazzante di tutta quella gente che vive così intensamente, e in fondo in modo cosi piacevole e ordinato a dispetto della povertà e nonostante la sporcizia di quei paesi su cui la luce si diffonde però in modo sorprendentemente decorativo e fotogenico su ogni casa e su ogni abitante ‒, a causa forse di un fraintendimento della vita e della storia del mondo più interno e profondo, che in taluni di loro rimane in ombra, calato tra i risvolti di una umanissima confessione dello smarrimento di sé nella civiltà dei moderni. Umore comprensibile è la malinconia del Sud di George Gissing. Nel 1897. Solo. Attraversava la vita come fosse un viaggio. Un vittoriano solitario, un fuggiasco maledetto, uno scrittore senza lettori. Dopo essersi a lungo specchiato e ritrovato nei volti sconosciuti degli abitanti del Sud, dopo aver cercato abbracci e occhi di donna, dopo essersi smarrito nel disordine delle strade e mischiato alla vita che decanta come schiuma dall’incipiente ambizione provinciale delle città del Sud, dove copie ridondanti e decrepite dell’architettura moderna già soffocano le piccole case e le strade delle antiche città dove nacque l’Europa, egli è costretto a dirsi una volta arrivato laggiù che nemmeno sulle rive dello Ionio avrebbe potuto sedersi quietamente sulla soglia dell’attimo e dire davanti all’estremo finis terrae di quel suo singolarissimo viaggio. “At last!”: “Qui finalmente riconosco la mia vita”.
   Tanti prima di lui, celebrando l’ipocrisia dell’esota hanno detto di aver amato il Sud. Eppure il vero viaggiatore non può amare, perché l’amore è stasi e il viaggio è spostamento. Gissing, affamato di lontananza e di nomi di donna, più onestamente per sé riconosce solo questo interrogativo: “quanto e già più abbondantemente di ciò che io stesso meritassi sono stato ricompensato per questo amore?”. Gissing cercava il Sud perché non era un turista, un esota comune, uno di quegli estranei compassionevoli o incantati.
   Lui si, era nato in esilio. Esilio dei tempi, esilio dei sentimenti: “la mia immaginazione, sempre immersa in un altro mondo” – “noi tutti possediamo in segreto il desiderio di credere fermamente ad un amore immortale eterno. Un sentimento commovente, ma è cosi amaro accettare la verità –  non sono mai riuscito a sentirmi un membro della società. Nella mia vita sono sempre esistite due sole entità: me stesso e il mondo, e le relazioni intercorse tra queste due polarità sono state di norma ostili… Sono nato in esilio”. Se qualcuno torna sempre con la mente e con gli occhi a luoghi, memorie, visioni; e se dentro restano come schegge roventi sguardi e parole, il richiamo di una voce, un volto di donna fuggito la via insieme alla promessa di “una bella giornata” – allora il viaggio è qualcosa di più, e chi lo compie non diventa il complemento particolare e fortuito di una terra lontana abitata dagli “altri”. Egli invece “abita” quella terra come fa un nativo con la patria lontana scorrendo il diario figurato della sua gioventù. Uno straniero così può viaggiare verso l’altrove cercando i segni di un’appartenenza. Un ritorno. Proprio come farebbe un nativo. Gissing era – in fondo – un inglese che desiderava di farsi calabrese. “Dopo tutto per me sarebbe meglio morire qui in una stanzetta davanti allo Ionio che in un tugurio di Shoredicth”, egli ha scritto.
   Chi resta lontano, il turista per caso, può dire con la degnazione che è tipica del turista, di amare il Sud. Intendendo con ciò che forse potrebbe un giorno tornare a visitare nuovamente quei luoghi, ma che certo laggiù nessuno di loro verrebbe mai veramente a viverci. Il solito insulto benevolo del turista che va in giro senza bisogno di tornare da dove è venuto, perché in realtà viaggia senza mai spostarsi da casa. Ma chi incontra chi?
   Persino i turisti più illustri – che dire dell’insopportabile filisteismo colto di Goethe e di Stendhal, attenti soltanto alla rivelazione del “sublime”? – senza toccare mai terra sorvolando tutto dalle vette celesti della loro degnazione intellettuale che si nutre della contemplazione classicista delle rovine e degli incanti del paesaggio. Non c’è paese, non c’è gente. Restano le alte coste del Sud, con lo spettacolo del loro sfarzo vegetale che sfila oltre il bordo del piroscafo. Poi le marine e le piccole case colorate, salutate con sollievo da lontano, separate nuovamente dalla loro arretratezza e sembra durare da sempre. Da lontano di nuovo tutto trascorreva e ridiventava più accettabile. Gli abitanti cenciosi dai bei profili omiletici venivano dimenticati presto: in fondo il Sud era solo una vacanza.
   Quello non era l’eden. I Giardini delle Esperidi erano sprofondati tra le sabbie bianche e le canne di palude, giù i calanchi riarsi dello Ionio, subito dopo i tempi del mito. I pescatori non conoscono Ulisse; forse ancora lo vede l’occhio del polipo, attratto dalla luna.
   Quello che Gissing attraversa e porta con sé nell’autunno del 1897, è il Sud che non vediamo più.
   Le rovine del passato classico, rotte e sparute, sono ancora quelle solenni vestigia ricoperte di rampicanti, davanti alle quali in mezzo alla campagna solitaria – la stessa che adesso vediamo tagliata dal nastro grigio e rumoroso delle autostrade – si viene per meditare sui destini ultimi della vanità umana; sull’insensatezza della vita stessa, forse. A Paestum, le possenti e magnifiche colonne di travertino del tempio dorico di Poseidone, confuse nel paesaggio reso immobile da un tramonto autunnale che rabbrividisce passando tra il cielo e il mare, sembrano emergere direttamente dalla forza tellurica del suolo e parlano della solitudine che avvolge e annichilisce la storia umana nell’eterno uguale rifarsi del tempo, nell’indifferenza della natura. Anche “la gente che qui vive con dignità e merita rispetto, e che commiserare sarebbe un insulto”, la stessa che Gissing incontrò e ascoltò cantare in una lingua che ancora custodiva i semi saltellanti dell’epos dei greci; quella gente “innocente e caparbia” la cui compagnia gli rese più leggero il cammino, non c’è più. Chissà che direbbe il vittoriano solitario di quella solitudine solenne e assorta, oggi pretenziosamente cancellata dal movimento assordante e insensato di un’autostrada affollata. Lo stupore di luoghi su cui riposa l’insidiata memoria del mondo degli antichi progenitori europei e dove ora travi e piloni di cemento armato sostituiscono alberi secolari e colonne millenarie. Il diorama di una natura delicata e potente, la quieta bellezza di città e contrade millenarie che un tempo suscitavano puntuali l’ammirazione un po’ svenevole dell’inquietudine nordica, oggi presentano senza scampo il conto di una nemesi storica che parla il linguaggio malinconico e deserto di certi bellissimi film di Gianni Amelio. Questo paesaggio della modernità, con i suoi cascami polverosi, le sue città rotte e inconcluse dove la gente sembra vivere nella frangia di un presente opaco che non apre al futuro. Non-luoghi costruiti da una società di immemoriali dove tutto viene rimpicciolito dalla vicinanza caotica delle periferie senza centro: teorie di enormi condomini, asili di una povertà nuova e più disperata che promettono di attraversare i secoli futuri mostrando intatta la loro insalvabile bruttezza. L’umanità povera e vociferante che custodiva e venerava la bellezza che fu degli antichi forse anche nel più sordido degli abituri di fango e paglia, è stata travolta e spazzata via dalla volgarità irredenta e insolente dei nuovi abitanti delle mille periferie povere e incattivite che incombono sulle moderne città del Sud. Lo strepito meccanico del traffico ha soffocato il mormorio delle fontane. L’assedio delle discariche e dei cumuli di rifiuti, la voglia di distruggere e negare è ovunque. Senza poter contare su di un ragionevole compenso economico, oggi le belle coste limpide della Calabria sono solo un bel ricordo oppresso sotto una coltre ininterrotta di cemento. Certo Taranto e Crotone di cent’anni fa erano piccole città sudicie e febbricitanti per la malaria, ma non ancora inquinate dalla mafia e dal sudiciume della droga, non ancora rovinate dall’abusivismo dilagante e dal malessere sociale che le affligge ai giorni nostri. La vecchia Cosenza con i suoi vicoli i mercati brulicanti e le sue austere palazzate seicentesche oggi cadenti non è stata riscattata dal suo antico isolamento dalla crescita caotica della nuova Cosenza con la sua ambizione provinciale di città degli uffici e dei condomini grigi e squadrati, che certo non rivaleggia per civiltà con l’antica città di Telesio. Oggi il Sud di Gissing è un immenso e caotico terreno di battaglia disseminato delle macerie e dei ruderi informi di una modernizzazione senza sviluppo che è stata incapace di tenere fede alle promesse di progresso annunciate un secolo fa. II prezzo delle conquiste della modernità qui è sta tra i più elevati: assenza di un’economia reale, disoccupazione crescente, amministrazioni e governi locali allo sbando, la mafia efficiente e pervasiva come qui nessun potere legale riesce a diventare. Un nuovo disordine sociale sta finendo per sgretolare una società irredenta e immiserita nei valori e culturalmente dimidiata nella sua memoria, entro la quale nessuno pare avere il coraggio e la forza sufficiente a contrastare il peggio. Altre regioni, si dirà, altri paesi del Sud offrono della modernizzazione un bilancio simile – resta pur sempre il benessere dei consumi -: non è una buona ragione per tacerne il prezzo e nasconderne lo scandalo.
   A neanche cent’anni di distanza da quel viaggio di Gissing al Sud, le pagine che questo scrittore vittoriano dedica ad un mondo già così lontano dall’età dell’oro e dalle pagine ingiallite dei classici, sono divenute per molti aspetti un documento complesso della verità dei tempi, e non soltanto sul modo di stipulare accordi con prostitute, ristoratori e postiglioni intriganti. Anche come cultore di antichità, Gissing non si comporta da filisteo colto. Le sale polverose dei musei provinciali, con le loro teorie di busti e statue di divinità classiche e di ninfe dal naso dritto, chiuse nella perfezione del passato, sono testimonianze che, poniamo, lo interessano meno della “strana sorprendente” collezione di maschere e ritratti di volti beffardi e deformi di antichi abitanti plebei di Taranto – autentico geroglifico sociale che un’epoca trascorsa sembra consegnare ai suoi successori – osservate in un angolo del museo archeologico, o di una commovente tavoletta di commiato scoperta su una tomba del cimitero di Crotone. O, piuttosto, a Napoli davanti ai turbamenti della “Collezione Pornografica”, dove sorprendiamo lo scrittore vittoriano intento alla contemplazione del magnifico bassorilievo di un Dioniso malinconico e inebriato da una giovane menade danzante. Immagini di un’inquietudine umana che viene dal passato per smentire l’illusione di felicità e di armonia proposta da un paganesimo delle rovine estetizzante di tutto riposo, alla Goethe. Oggi ci sono paesi e villaggi del Sud diversamente poveri e precari. Avamposti traballanti di una modernità fatta di superstrade dal tracciato incerto e da quartieri abusivi sporchi e polverosi, dai rottami d’auto degli sfasciacarrozze in mezzo alle campagne, dai cartelloni pubblicitari e dalle insegne al neon spropositate dei ristoranti per banchetti nuziali a buon mercato, che hanno nomi di fantasia copiati dalla televisione o quelli di città antiche della magnagrecia, il cui richiamo grottesco e favoloso occhieggia per qualche secondo dai finestrini delle auto in corsa, che già sfilano lasciandosi dietro le facce stordite dei fruttivendoli e dei venditori ambulanti di pesci e cibarie – vecchie contadine e ragazzine ferme sotto il sole con i loro banchetti improvvisati lungo il bordo impolverato delle nazionali soffocate dal traffico, con addosso quell’espressione fissa e implorante nell’inutile attesa di un acquirente per le loro povere mercanzie. Queste però non sono povertà esotiche, tristezze da cartolina. Niente a che vedere con il pittoresco e il primitivo del Grand Tour classico. Questo è il prodotto sociale della modernità alle latitudini del Sud. E la visione di questa modernità corriva, caotica e distruttrice era stata oniricamente intravista e malinconicamente preconizzata, quasi anticipando nei segni criptici la sceneggiatura e il set iperrealista di uno dei film di Amelio, nel viaggio che George Gissing compiva nel Sud meno di cento anni fa.
   C’era già in quel suo viaggio qualcosa che pochi stranieri hanno avuto il bene di capire e il coraggio di affrontare guardando più da vicino: la verità della vita, così com’e. E cosa resta di un viaggio come questo? – Non un souvenir; ma la vita, la vita stessa. Quella che si prende, quella che si dà. Anche quando ogni cosa è impossibile, anche quando tutto sembra renderla inutile, perché altrove e in nessun luogo esiste veramente “another new life”. Ma fu destino di Gissing sentire il richiamo del Sud come in una notte insonne che ripete indimenticato un nome di donna. Da qualche parte ci si innamora sempre del mondo, della vita, di un nome di donna – malgrado il mondo, la vita. Nonostante tutto.