IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 10, ottobre 1995
saggi: Il Viaggio, pp. 86-89

commento critico

Giancarlo Pontiggia

Le stanze intense

   La vicenda poetica di Giselda Pontessilli sembra profilarsi lungo una linea di contenuta semplicità, come una serie di quadretti votivi trasfigurati nella loro stilizzata limpidezza, o come un’icona, nella quale ogni immagine, nella sua rigorosa fissità, riesce a trasmettere il senso di qualcosa di più profondo e spirituale, una vertigine di sacra pienezza.
   La sua storia è tutta racchiusa in pochi segni: comincia nel 1979 con ”Braci”, la rivista romana che cerca di impostare un nuovo dialogo con la classicità, liberandola dal peso di ogni imbarazzante classicismo, coniugandola con un desiderio di purezza e di assoluto; prosegue con la sua prima, minuscola ma irraggiante, raccolta poetica, intitolata Il pensiero bello di lui, versi di una bellezza quieta e intatta, dove di nuovo, dopo decenni di sofisticate elusioni e di calcolate ambiguità verbali, un poeta trova il coraggio, e la forza, di esprimere ”bei pensieri”, luoghi condivisivi e solidali, modelli di ”una vita/ più nobile, più pura”.
   E’ la stessa Pontessilli, in un saggio su Orazio, a esprimere con chiarezza la propria poetica: ”L’arte è infatti chiara guida al Bene; fa vedere della vita e del mondo d’ogni tempo la figura, la forma, le regole, gli infiniti e ordinati rapporti di unità e di pensiero, la bellezza dei numeri, la chiarezza di ciò che diviene, la coerenza, la logica, i fini”. L’ambito culturale nel quale queste espressioni vanno collocate è certamente neoplatonico; ma si tratta di un neoplatonismo depurato dei suoi elementi magici e teurgici, proiettato in una dimensione di verità quotidiana e di minime (ma quanto più profonde e indispensabili) virtù, pazientemente declinato sui grandi ideali classici di mediocritas e di acqua mens. La sua stessa poesia, stilisticamente e ritmicamente, potrebbe del resto essere assimilata al modello del sermo oraziano; così come a Orazio rinviano il motivo, più volte contemplato e originalmente risolto, dell’angulus e quello, filosofico, dell’autàrkeia (”Ora lavora a maglia finalmente,/ ora la nostra casa sarà piena/ senza aver bisogno di comprare”). Un ideale estetico che giunge a definirsi visivamente nella bellezza misurata e interiore dell’abbazia cistercense di Valvisciolo: ”E’ luce, non è pietra/ è l’armonia, la carità d’idee/ di chi la fece, luminosa e quieta”.
   Il pensiero bello di lui definiva lo spazio poetico come una serie di stanze, ora ombrose ora lucenti, ora silenziose ora animate dalle voci familiari: ed erano stanze vere, le stanze delle case veramente abitate durante la vita, e insieme stanze metaforiche, interiori, abbazie anch’esse, forme riposate e armoniche della propria mitologia privata. Dentro quelle stanze, si muovevano (fissate nel minio di un’eterna esemplarità) le figure dei genitori, dei fratelli, del figlio, degli amici (anche poeti), dietro i quali sembravano affacciarsi altre ombre angeli custodi o lari familiari, che accendevano ogni soglia e ogni finestra, liberandole verso il cielo. Il mio negozio approfondisce questo sguardo, affonda in una sorta di preistoria più remota, riconosce i propri numi tutelari in una galleria sacra di figure che hanno deciso un destino di vita (e dunque anche di poesia). Ma molte di queste figure appartengono a un’altra vita, non ci sono più: i professori Assunto e D’Amico, il poeta Beppe Salvia, il padre (bruscamente trascinato nella corrente, misteriosa e inaccessibile, ma forse per questo ancor più sensibilmente viva, degli avi). Il pensiero del bene e del bello deve fare i conti con la loro scomparsa: ”Li credevano immortali… invece l’ho visto morire/ a poco a poco, ma senza accorgermi, / senza crederci mai./ Così incredibile è questa morte/ che ancora io non so che devo fare”. Ma proprio in questo incredibile vuoto sembra sprigionarsi con l’esigenza di ”dare forma” di ”far vedere la vera realtà”. Si rinnova dunque, rispetto alle poesie del libro, il tema dell’umanità (di spiriti, di intenti, di vita), ma sposato in una dimensione più celata e protetta, che non è solo la stanza solitaria della propria memoria, ma anche il luogo di una ritualità condivisa (”prendiamo il the, ci offriamo i regali”) che ripete la vita e la continua misura profonda di un gesto, di un segno. Così, nella preziosa e bellissima lirica a Beppe Salvia, lo spazio improvvisamente si amplia: e dalla cella di un cuore ”troppo ferito” si trapassa bruscamente ai nomi più alti e più nobili della poesia di ogni tempo, a Petrarca, a Virgilio, a Orazio (ricordato più oltre nella dimensione archetipica e conviviale della celebre ode al Soratte), e perfino a Cicerone (quello del De officiis o del De amicitia, immaginiamo).
   ”Dunque anch’io scrivo e penso? Anch’io/ come persone nobili di un tempo / siedo alla scrivania? / siedo in silenzio?”, già ci era capitato di leggere nell’intenso libro d’esordio: e quali altri versi potevano esser capaci di esprimere, nella loro candida bellezza, un senso più forte e autentico di ciò che chiamiamo tradizione, umanesimo, civiltà? In anni di rabbrividente viltà della cultura, di pauroso conformismo delle intelligenze, di tecnicismo poetico, Giselda Pontessilli sembra annunciarsi come uno di quei monaci medievali che nel chiuso delle loro celle, mentre fuori imperversano epidemie, fame e orrori, continuano umilmente a fare ciò che devono, a ricopiare i loro codici, a trasmettere le parole essenziali di una civiltà. Nelle sue poesie non si gioca, banalmente, con il linguaggio, non si elude il senso: il poeta crede nei nomi che pronuncia, nei segni che indica; i suoi quadri di vita quotidiana stabiliscono un rapporto non simbolico ma figurale tra un ”qui” e un ”sempre”, definiscono una visione, accennano a una ”promessa… d’arte, di pace”. Leggere, pensare, conversare divengono dunque rime e suoni, fluiscono in una corrente, si fanno tempo e memoria, propongono a chi legge un ammaestramento, una salvezza. Come da certe figure di capitelli romanici (un agnello, una foglia di vite o d’acanto) che ci sorprendono per caso, emanando una spiritualità docile e preziosa, noi sentiamo in questi versi una forza invisibile e unitaria che esprime un’essenza del reale, definisce una strada, afferma l’esigenza di una parola fondata su chiari rapporti di nominazione e di verità, e non solo su valori di pura sensuosità verbale o di private ossessioni mentali: ”le parole, si sa, son tutte uguali”, si dice nella poesia dedicata a Orazio; insomma disincrostarle della loro superfluità storica, farle diventare poesia.