IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 10, ottobre 1995
racconti brevi, pp. 20-23

Elvira Procaccini

La Villa

   Veniva a mancare sempre all’improvviso. Mai che avvisassero un giorno prima o almeno un’ora prima. Mai. E anche quel giorno fu così. Era il quindici agosto.
   Uno alla volta aprii tutti i rubinetti, per raccogliere le poche gocce che di solito rimangono nelle tubature. Non ne uscì una. Li richiusi e mi precipitai verso il frigorifero. Era aperto e vuoto, e la corrente staccata. Già, ero appena tornata da fuori. E dire che prima di andarmene per quei cinque stupidi giorni, avevo pensato di lasciarlo in funzione. Ci avessi almeno trovato una bottiglia d’acqua…Niente. Faceva pena, tanto era vuoto.
   Aprii tutte le finestre, non si respirava. Un caldo insopportabile invase subito la casa, come se qualcuno, da fuori, lo buttasse dentro a secchiate. C’era da impazzire. Erano ore che avevo una sete del diavolo e pensavo che avrei bevuto a casa. Chi la teneva la forza di prendersi a spintoni, in un bar sull’autostrada, con migliaia di turisti che ci odiano?
   Mi accasciai su una poltrona. Ma perché avevo deciso di tornare proprio a ferragosto? Non avevo niente di urgente da fare, in città. Volendo, sarei potuta rimanere fuori almeno un’altra settimana. Non in quella casa, naturalmente. Li non sarei rimasta neanche un’ora in più. Lo dico sempre che non bisogna farsi ospitare. Non oltre due giorni. E invece questa volta c’ero cascata: cinque giorni. Ospite per cinque lunghissimi giorni. Già al terzo non ci sopportavamo più. Per tutta la durata del quarto, poi, i dispettucci dei tre precedenti erano diventati piccole brutalità finché, al quinto, i piatti non venivano più poggiati sulla tavola, ma semplicemente lasciati andare. Altro che restare! Sarei dovuta ripartire subito, alle prime avvisaglie. Sarei potuta andare in qualche altro posto, da sola. In un posto tranquillo, magari. Ma no, non a ferragosto. Che cosa si può improvvisare a ferragosto?
   Andai in bagno per asciugarmi il sudore. Riprovai coi rubinetti. Niente.
   Aprii la porta, sperando in un po’ d’aria fresca. Nemmeno per sogno. La situazione restava immutata. Stavo per chiuderla, quando mi venne in mente la signora del piano di sopra. Perché non ci avevo pensato prima? Salii velocemente e mi attaccai al campanello. Per la bellezza di cinque minuti, senza esito. E’ proprio difficile che qualcuno, in una palazzina di tre appartamenti, stia in casa a ferragosto, per giunta alle cinque del pomeriggio, in città…
   Scesi le scale e mi fermai annichilita davanti alla porta di casa mia. L’aveva chiusa, probabilmente, l’unico alito di vento che era passato di lì. Ero semisvenuta, senza neanche la borsa, senza neanche una lira.
   Scesi nell’atrio della palazzina. Ebbi subito la sensazione che sarei stata meglio. Mi sbagliavo: dopo pochi minuti sembrava di essere al centro di una fornace ardente.
   Mi precipitai in strada, lasciando che il portone si chiudesse alle mie spalle. Che senso avrebbe avuto lasciarlo socchiuso, se la casa era inaccessibile?
   Il sole non aveva alcuna voglia di tramontare. “Maledetta ora legale!” pensai mentre attraversavo la strada deserta per raggiungere l’altro marciapiede, che era un po’ meno assolato. I palazzi cominciarono a perdere la loro stabilità. A un tratto li vidi girare su se stessi vorticosamente. Mi appoggiai al muro; continuavo a sudare e a chiedermi come ciò fosse possibile, disidratata com’ero. Sentii sfrecciare una macchina, ma non riuscii a vederla.
   “Sto per svenire” pensai. Ma è assurdo morire di sete in piena città!
   Raccolsi le ultime forze allorché mi venne in mente che c’era ancora una possibilità: raggiungere un ospedale. Il più vicino era a circa un chilometro di distanza. Avrei dovuto camminare velocemente (e così feci), altrimenti mi sarei accasciata al suolo, lo sentivo. Mi fermai soltanto una volta, per sedermi qualche minuto sul marciapiede e riprendere fiato. In breve tempo raggiunsi la méta.
   All’ingresso mi bloccarono. Chiesero spiegazioni, domandarono da dove venissi. Risposi che venivo da casa. Domandarono che cosa volessi da loro. Risposi che volevo bere. Si guardarono e risero. “E voi venite da casa vostra per bere l’acqua dell’ospedale?” dissero. “Qui non abbiamo niente, signorina, abbiate pazienza… Tornate a casa” conclusero spingendomi per un braccio.
   Ero ormai decisa a non opporre più resistenza alla mia fine. Mi diressi verso il mare, tagliando per una lunga discesa che mi portò alla Riviera di Chiaia.
   Fu lì che vidi la Villa. La Villa comunale, dove avevo trascorso quasi metà della mia vita, certamente tutta l’infanzia, giorno dopo giorno. Sentii una musica e molte voci, in lontananza. “Sono i ricordi, – pensai – tutti i ricordi che tornano, perché sto morendo”.
   Attraversai la strada, volevo morire nella Villa. La musica si faceva più forte, le voci concitate. Salii i tre gradini d’ingresso e sollevai lo sguardo.
   La banda sonava nella vecchia Cassa Armonica e intorno ad essa centinaia di bambini ridevano e piangevano, e uomini e donne di tutte le età ascoltavano la musica e parlavano allegramente. La fontana dei leoni di pietra zampillava da tutte le parti e nell’acqua si riflettevano gli ultimi raggi di sole.
   Si accesero le luci dei lampioni, s’illuminò una fila lunghissima di bancarelle. Ognuna di esse offriva le cose più svariate, dai sorbetti colorati ai lupini, ai cocomeri, al cocco, alla carne di porco e ai fichi d’India, ai dolciumi e alle bibite fresche. Un gruppetto di bambini mi fece cerchio intorno e cominciò a girare, intonando una vecchia cantilena. Per la prima volta, dopo molti anni, ero felice che esistessero le persone, le voci, le luci della mia città.
   “Signurì, nu poco ‘e musso?”. La bancarella emanava un odore intenso di carne e limone.
   “Ho sete” risposi sorridente, mentre i bambini continuavano a girarmi intorno.
   “E veviteve ‘na bella limonata. Pigliate, pigliate”.
Stesi la mano. “Non ho soldi” dissi avvicinando il bicchiere alle labbra.
   “Vevite, vevite…”
   “Giro giro tondo, casca il mondo…”. Le voci si allontanarono. Socchiusi gli occhi, mentre l’acqua mi scorreva sul petto.