IL ROSSO E IL NERO
anno 4, numero 10, ottobre 1995
saggi: Il Viaggio, pp. 34-40
Sergio Brancato
Gli immobili viandanti del ciberspazio
Nessuna letteratura rimanda al viaggio quanto la fantascienza. Simili agli immobili esploratori delle geografie fantastiche d’un tempo, gli scrittori dell’immaginario tecnologico ‒ da Verne ad Asimov, da Dick a Gibson – si spingono oltre i confini del mondo conosciuto, inoltrandosi in quelle terre contrassegnate, nelle antiche carte, dalla dicitura “Hic sunt leones”. Qui i leoni, i mostri dell’ignoto, le creature ibride della falsificazione della differenza, forme simboliche in cui si inscrivono i modelli ed i conflitti culturali del mondo osservante.
1. Il viaggio ha sempre inizio in qualche luogo, ed il suo fine consiste nel chiudere il cerchio del ritorno. Ma nel momento in cui il viaggiatore si addentra nell’esternità da sé, paga il costo di quella che Franco Ferrucci definiva, (ne L’assedio e il ritorno, Bompiani 1974) come “l’affabulazione menzognera”, il modello narrativo elementare contrapposto a quello dell’assedio, metafora coerente della realtà e della vita. L’Odissea negazione (necessaria) dell’Iliade. Ed il ritorno di Ulisse non è davvero un ritorno a casa, poiché – come sostiene Thomas Wolfe – non si può mai tornare a casa. Il ritorno è un’illusione.
Il viaggio come falsificazione e menzogna, dunque. La fantascienza, tecnica di sopravvivenza alla velocità dei transiti della tardo-modernità, è senz’altro dentro questa concezione del viaggio. I suoi cartografi hanno tentato di riorganizzare la percezione sociale dello spazio, adeguandola ai nuovi paradigmi della scienza. Dando nuova forma ai leoni. Ma la schizofrenica del viaggio fantastico nei territori della “space opera” – ovvero della tradizionale fantascienza avventurosa – viene svelata nel 1962 da James G. Ballard. Nell’editoriale intitolato “Qual è la strada per lo spazio interiore” (in Re/Search Edizione Italiana, “J.G. Ballard”, Shake Edizioni 1994, p. 50), Ballard sostiene: “I maggiori progressi dell’immediato futuro avranno luogo non sulla Luna o su Marte, ma sulla Terra; è lo spazio interiore, non quello esterno, che dobbiamo esplorare”. I leoni sono dentro di noi
2. Il mondo, in apparenza, non ha più misteri sul piano fisico. Osserviamo il nostro pianeta dallo spazio con i satelliti, la televisione ci rimanda in tempo reale le immagini di ogni dove. Il viaggio è un fenomeno di consumo, normativizzato e rassicurante laddove, appena ieri, si presentava incerto e rischioso. Tuttavia, l’indicazione fornitaci da Ballard trova una strada percorribile nelle comunità virtuali del computer, nel popolo nomade e stanziale del modem che – estraneo ad ogni residuo senso del luogo – vive la comunicazione lunare e introspettiva della telematica. Chi vive in rete sa bene che sullo schermo fosforescente del PC prende corpo un pensiero interiore, immediato, interattivo. E’ una sorta di oralizzazione scritta che ci restituisce alla condizione tribale, ai racconti della sera intorno al fuoco.
La connessione in rete dei personal computer era ancora sulla soglia tra realtà e fantascienza quando, nel 1981, William Gibson scrisse il racconto Burning Chrome (La notte che bruciammo Chrome, Mondadori 1993). Qui nasce il concetto ed il neologismo del “cyberspace”, nonché i temi e le atmosfere del romanzo Neuromancer (Neuromante, Nord 1993), destinato ad accendere il fenomeno prima letterario e poi politico del cyberpunk. La descrizione dell’inner space informatico è ancora debitrice alle fascinazioni psichedeliche di Ballard: “Un’ondata fosforescente si sollevò nel mio campo visivo, mentre la matrice cominciava a dispiegarmisi nella mente, una scacchiera tridimensionale perfettamente trasparente che si estendeva all’infinito. Mentre entravamo nella griglia mi parve che il programma avesse dato un sobbalzo. Se qualcun altro si fosse inserito in quella parte della matrice avrebbe visto un’ombra guizzante uscire dalla piccola piramide gialla che rappresentava il nostro computer” (cit., p. 31) .
Nelle storie di Gibson, interfacciarsi con l’allucinazione consensuale della matrice genera lo stesso effetto di smarrimento causato agli artisti romantici dal laudano ed a quelli beatnik dall’acido lisergico. I personaggi si ritrovano immersi, dopo la repentina vertigine del collegamento, nell’irreale immensità di un oceano digitale, tendenzialmente infinito, attraversato da innumerevoli correnti di informazioni. Il passaggio dalla “realtà naturale” (il mondo fisico) alla “irrealtà artificiale” (il mondo informatico) appare come la metafora di transiti più generali, lo spostamento paradigmatico dalla macchina industriale al codice binario.
Tuttavia, a differenza della letteratura che metteva in scena il passaggio verso la civiltà industriale, la narrativa di Gibson non crea mostri spaventosi, non ci ammonisce sui rischi della “perdita” di un precedente “stato di natura”. Lo scrittore americano è consapevole del fatto che la mutazione antropologica che egli descrive in Neuromante è già iniziata nella realtà, così come era stato anche per il Frankenstein di Mary Shelley, che segnalava con inarrivabile chiarezza l’avvento della civiltà industriale e di massa. La differenza sostanziale tra i due testi è che la “macchina” del postmoderno si fonda su una tecnologia soft come quella elettronica, che non offende oltre misura l’integrità del corpo biologico. Conviviamo con i leoni. I leoni sono parte di noi. Anzi, i leoni sono il nostro doppio.
3. Case, il cowboy del ciberspazio protagonista di Neuromante, vive il proprio dramma personale quando una tossina sintetica, aggredendo il suo sistema spinale, gli impedisce di “smarrirsi” nella sovrastimolazione sensoriale che la matrice – lo spazio parallelo sintetico costituito dal legame tra i computer del pianeta – assicura ai suoi visitatori. Egli desidera il ritorno nella matrice, l’unico luogo in cui possa sperimentare spazi di libertà. Il suo corpo trova nei territori dell’artificio la naturalità delle emozioni. Esiliato nello spazio fisico, Case ne subisce la durezza, l’inaffidabilità che deriva dalla crisi di culture, modelli e valori del Moderno. Si aggira per strade violente, dominate da una mafia [multilivellare], in cui la politica è un ricordo del passato e prevale la logica selvaggia del mercato. La vita, lì, ha meno valore delle droghe che assumi per sopportarla.
Case è davvero un cowboy, ed il computer è la sua prateria, lo spazio (relativamente) anomico in cui potersi muovere, viaggiare, vivere l’avventura ed il rischio del non ritorno a casa. Il mito della frontiera rivive nella figura del “wired”, del collegato alla rete. Ed è curioso notare, come fa Antonio Caronia (nel suo saggio “Wired”, contenuto nel libro curato da Mario Perniola, L’aria si fa tesa. Per una filosofia del sentire presente, Costa & Nolan 1994, p. 24), che il verbo wire significhi in origine “legare qualcosa con il fil di ferro” (la tecnologia che organizzò lo spazio selvaggio e libero della frontiera, trasformandolo da ultimo universo occidentale del nomadismo in trionfo post-neolitico della stanzialità).
Il cyberspace è un territorio di strane affabulazioni, di viaggi allucinati e lucidi al contempo, di ruoli essenziali, di scenari ridotti ad astrazioni, all’interno del quale non scorgiamo traccia dell’uomo. Nella descrizione della rete informatica, William Gibson ha eliminato quasi del tutto la presenza umana, rendendo il ciberspazio una zona di purezze geometriche che fa pensare all’interpretazione che Fredric Jameson dà dell’arte postmoderna. Il luogo/non-luogo della matrice viene descritto da Gibson e dai suoi epigoni ricorrendo alle figurazioni dell’astrattismo: piramidi gialle e rette di gelido azzurro costituiscono le uniche esistenze di quel deserto siderale racchiuso nel silicio e nelle fibre ottiche. Come per gli esponenti delle avanguardie del primo novecento, i cyberpunk non si ispirano più alla realtà naturale, ma la trasfigurano, la trascendono dando vita ad una nuova realtà.
In definitiva, è questo il senso della narrazione: generare un universo in cui le regole dell’esistenza mutano al punto di sottomettere il cosmo al soggetto, esorcizzandone la limitatezza e sconfiggendo l’incombenza della morte. Così come avveniva nelle configurazioni del Mito riportate da Omero, così come avveniva nella Fiaba, così come avveniva nella fantascienza industriale. Non a caso, sempre in Neuromante lo spirito degli hacker morti viene immagazzinato nelle banche-dati, come in un frigorifero per anime. Tutto ciò è reso possibile – sul piano della coerenza narrativa – dalla potenza dell’informatica, che tende a coniugarsi al nostro corpo amplificandone i sensi e introducendolo a più livelli d’esistenza. Nulla aveva posseduto, in precedenza, una tale capacità estraniante. Il teatro, la letteratura, la stampa, il cinema e la televisione erano riusciti a creare un habitat mediale sempre più concreto e pervasivo, stimolando essenzialmente lo sguardo e l’udito. Ma con le anticipazioni di Gibson sulla Realtà Virtuale ed Internet è il nostro corpo ad essere sollecitato nella sua interezza e trasportato in un modello di realtà, in un nuovo mondo da esplorare.
4. Le motivazioni del viaggio sono, in Gibson, le medesime di ogni viaggiatore e, meglio, di ogni scrittore di viaggi. Più che ad Hammett e Chandler (da cui deriva la sensibilità di una scrittura capace di restituire l’incedere strutturale della forma metropoli), più che allo stesso Pynchon (cui lo accomuna la capacità “poetica” di assemblare materiale della cultura pop con i saperi scientifici), lo scrittore americano ci rimanda a Conrad. I personaggi di Gibson vivono sulla soglia di una trasformazione ignota, attesa e paventata insieme. E’ il caso del Conte Zero, protagonista del secondo romanzo della trilogia del cyberspace (Count Zero, Giù nel ciberspazio, Mondadori 1990), un ragazzino che naviga nella matrice con mezzi di fortuna e si imbatte in una entità semidivina, una metafisica congiura cui dovrà rispondere oltrepassando la linea d’ombra dell’adolescenza. Ma è anche il motivo che muove le azioni di Case, vero e proprio reietto delle isole informatiche, arenatosi in un porto di disperazione.
Il tema della disperazione è centrale nel cyberpunk. II mondo è quello che è, e nessuna utopia critica potrà cambiarlo. Fine della Storia, ovvero il lascito più significativo del romanzo postmoderno (William Burroughs su tutti) al cyberpunk. E, tuttavia, il ciberspazio resta un nuovo spazio narrativo. Occorre almeno un po’ di curiosità per addentrarvisi. Gibson ridefinisce, sul piano dell’immaginario, il rapporto tra soggetto e spazio, facendoci cogliere la portata di un processo che tende a ridisegnare i limiti del corpo, a “bucare” la pelle, a trovare un nuovo campo semantico del sé. Inaugura una nuova stagione del viaggio, forse l’ultima possibile. Laddove il mondo fisico ha esaurito le proprie possibilità di essere scoperto, il mondo informatico ci consente di spingerci fuori, nella notte, in attesa di qualcosa di ignoto a cui tornare.
5. William Gibson ha scritto i suoi primi racconti e Neuromante battendo sui tasti sconnessi di una vecchia Remington. In un’intervista (pubblicata in Italia sul numero 1 della rivista “Alphaville”) confessa che quando acquistò un Apple II ad una svendita, rimase molto deluso dalla natura meccanica del personal. Egli aveva immaginato la tecnologia informatica come qualcosa di molto più immateriale, quasi di trascendente.
Ma tutto ciò è relativamente importante. Ciò che conta è che il ciberspazio è essenzialmente la metafora letteraria di un nuovo spazio narrativo, uno spazio che sta trasformando sia la produzione di immagini che quella di scrittura, e soprattutto le pratiche sociali di entrambi i codici espressivi. Tra le righe a stampa delle storie di Gibson scorgiamo le potenzialità destabilizzanti degli ipertesti, della scrittura interattiva. Un mondo che tramonta, un altro che sorge. Occorre impaurirsi? Probabilmente no. Michel Serres analizza lo snodo immaginativo verniano sostenendo che i romanzi di Verne “furono per la gioventù di alcune generazioni quel che l’Odissea dovette essere per la gioventù greca. (…) Il primissimo viaggio: un esordio nella vita. Tutto accade come se Verne avesse riscritto l’epopea omerica” (Jules Verne, Sellerio 1979, p. 15).
In questo passaggio, Serres evidenzia la continuità della sostanza mitica, in grado di dare senso al mondo, a fronte della discontinuità tecnologica della trasmissione del racconto. Le possibilità delle nuove tecnologie, di cui Gibson è il più sensibile e critico rabdomante immaginifico, rendono ancora attuale la metafora del viaggio come conoscenza ed autocoscienza, ricerca di sapere e quest del proprio destino. Certo, nessun viaggio è esente da pericoli, il più seducente dei quali è lo smarrimento.
Nel ciberspazio lo smarrimento è ancora possibile, e nella letteratura di Gibson e degli altri cyberpunk, esso è il tema dominante. Ma, come nelle storie di Paul Bowle, non si tratta necessariamente di qualcosa da evitare. A volte smarrirsi è l’unico modo per ritrovarsi, e la menzogna (“l’affabulazione menzognera” di Ferrucci) non è che una diversa verità. Come quella che, in ultima analisi, i leoni siamo noi.