IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 1, febbraio 1992
poesia e critica, pp. 60-61

nota di poetica

   Appena poche righe d’accompagno

“Qual silenzio una luce nel profondo”
Paul Klee, Diari


   La presunzione del silenzio o la pietà? È uno stare “di qua dal mondo” o la forma della propria testimonianza sul versante amaro ed irreversibile dell’intransigenza? E’ “difesa contro le offese della vita” o “regola”, “norma” dentro lo stato della necessità? C’è un’ora del proprio tempo (e l’eco lontana di Giorgio Orelli non è affatto casuale) in cui il rapporto con la verità e col mondo non può più essere differito. Per ognuno è un’ora diversa.
   Per me è accaduto che scegliessi la riva di una severa solitudine senza patteggiamenti. L’inventario dei propri effetti personali, il breviario laico del lessico indispensabile e le glosse di una sintassi venuta su come una figlia, stagione dopo stagione, fattasi adulta ed austera, intransigente anch’essa, anch’essa esigente.
   Null’altro. La poesia, nella mia biografia usuale e tediosa, è tensione costante rivolta alla forma del senso del mondo nella graduale, paziente, meticolosa riduzione dell’io, della sua tracotanza, della sua insopportabile invadenza, dismisura, sciatteria, presunzione, vanità. Passo dopo passo, un cammino verso la stazione assoluta, inapprossimabile, eppure ogni volta guardata sulla mappa, riconosciuta come estrema ed unica geografia del silenzio nel quale cadere col proprio essere. La solitudine è condizione fondamentale per consegnarsi ad una parola che tenti una diversa via da quella dei linguaggi della contingenza, della comunicazione, dell’usura strumentale ed effimera, dei gerghi, degli slogans e delle formule di una merceologia del vivere quotidiano rubricato nei casellari del consumo e della spesa, la stessa merceologia tragica e miserabile che ha fatto di ogni evento dell’esistere un puro oggetto d’uso inconsapevole.
   Così avviene che le opere della gioia, del dolore o dell’amore abbiano la stessa valenza nell’algebra del profitto e scompaiano portate via dai netturbini del senso che operano, con tenacia, per rimuovere ogni traccia della coscienza.
   La poesia (che nasce e vive all’interno della sua udienza silenziosa) tenta di farsi scrittura della perduranza, segno non precario, voce di una identità, versus, nome del mondo.

Francesco Scarabicchi
Ancona, il dicembre del 1991