IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 1, febbraio 1992
racconti brevi, pp. 21-25

Nando Vitali

Il soccorso

   L’auto dapprima tossicchiò come se le fosse andato per traverso, lungo l’esofago del motore, una parte del liquido propellente. Poi rallentando la marcia diede piccoli contraccolpi di avvertimento. Infine, con un fischio pirotecnico, che dovette suonare come di beffa, si fermò.
   L’uomo che era al volante riprovò a mettere in moto. Con calma, non voleva perdere la testa, e girando la chiavetta dell’accensione premette con leggerezza il piede sull’acceleratore. L’auto gorgogliò come a schiarirsi la voce, sembrava un tenore prima dell’esibizione, e per un momento il cuore del guidatore si apri alla speranza. Ma purtroppo l’illusione sbollì al mutismo – questa volta totale – che corrispose agli ulteriori tentativi di messa in moto. Un tac sordo e metallico era l’unica risposta al ruotare della chiave. I tentativi si fecero più frenetici, tanto che rischiò di spezzare la chiavetta nella toppa. Una furia disordinata lo pervase, e solo l’appello alla ragione gli impedì di scaricare la batteria.
   Guardò fuori dal parabrezza. Era una sterminata, desolante campagna che si perdeva a vista d’occhio senza alcuna traccia di centri abitati.
   La strada si inerpicava penetrando il verde che mai gli parve così incombente e fastidioso. L’asfalto nero e compatto contrastava col paesaggio laterale, dove pietre grosse si affacciavano in bilico sul ciglio stradale. Nessun segnale chilometrico, nulla che potesse orizzontarlo. Un brivido di freddo percorse la schiena dell’automobilista che alzandosi il bavero decise di aprire lo sportello uscendo allo scoperto.
   Fra non molto – forse un’ora – sarebbe annottato. Vedeva il sole pencolare oltre le montagne, verso occidente, mentre un vento gelido da nord spezzava il cielo giallognolo degli ultimi bagliori solari. Una grossa montagna avrebbe cancellato in modo definitivo la luce. Intono l’aria silente era screziata di tanto in tanto dal verso di uccelli sconosciuti: piccole assenze rumorose. L’uomo pensò alla sua poltrona preferita e starnutì.
   Era immerso nella natura di quel posto sempre più inospitale e dalle labbra asciutte spuntò una sigaretta che a parziale risarcimento lo rinfrancò. Si chiese allora se non fosse il caso di aprire il cofano dell’auto. Non era in grado di distinguere una vite da un bullone, ma era un’operazione che chiunque avrebbe fatto, e così fece scattare la molla che con un clic mise a nudo il pacco intestinale del veicolo. Un leggero vapore caldo lo investi. In estatica contemplazione osservò il groviglio di meccanismi misteriosi. La nebbia dell’incompetenza ottenebrò i suoi sensi e la cenere della sigaretta sfrizzolando lo morse sulle labbra, lasciandogli partire una bestemmia che rimbombò fra gli ingranaggi. Si penti di non avere mai considerato utile avere qualche nozione di meccanica: in un simile frangente la cosa gli sarebbe stata giovevole. E così il rapporto col suo mezzo di locomozione più usato era di reciproca indifferenza.
   Non gli restava che attendere soccorso, sperando in qualche automobilista di passaggio. Ma intanto col passar del tempo uno scetticismo pungente emergeva simile a una carie. La realtà possedeva un dorso di spine e si immaginò a carezzarlo per cavarne un improbabile beneficio. Sapeva bene però che era solo una piccola blandizie, e il risultato destinato al fallimento. Quelle dannate lamiere avevano un’anima e si vendicavano della sua insensibilità. Taluni curavano con amore quasi materno le loro auto fino a farle scintillare di fresco, facendole apparire giovani puledre lustre e cariche di vezzosa umanità.
   Un uccellino dai colori vivaci si posò sul tetto dell’automobile. Si scrollò distrattamente le ali, poi si librò in un volo meccanico a piccoli scatti. La solitudine dell’uomo in panne si fece più densa, uno sconforto come non aveva mai provato.
   Richiuse il cofano e si infilò all’interno.
   Brutta puttana, perché mi fai questo? Si penti subito di quella esclamazione e si accorse con inquietudine di pensare a quelle lamiere inanimate come a un fantasma che assumeva via via più consistenza. Dappertutto spuntavano arti e appendici in grado di soffocarlo, deriderlo… la realtà si disfaceva per fare posto ad un essere demoniaco.
   L’oscurità diede forza alle stelle tremolanti nel cielo. I loro bagliori si aggregavano nelle forme della notte. Era una visione che si accendeva dal parabrezza come su un televisore e si sforzò di riconoscere i carri dell’Orsa i quali in un antico rituale predicavano nella galassia la loro maestosa presenza. Fra poco sarebbe stato uno scarafaggio grigio nel silenzio, e il nero lo avrebbe inghiottito confondendo le cose in modo che tutto apparisse uguale.
   Il rumore si era rappreso in un duro macigno, magico, arcano, e l’uomo al volante fece un nuovo tentativo per mettere in moto l’auto. L’ultima speranza si alzò in volo con le ali scarnite dei primi pipistrelli.
   Non c’era niente da fare: doveva rassegnarsi a trascorrere li la notte aspettando l’alba e con essa la luce.
   Si rincantucciò alla meglio e provò a chiudere gli occhi. Faville dai bordi blu e dal corpo rosso gli striarono la mente, successivamente veloci scene della sua vita presero a rincorrersi, crescendo per poi svanire in un carosello luminescente. Era un mare dai colori sfolgoranti che innalzava creste spumose. Un gioco cromatico palesava volti e scene sbiadite dal tempo. Una memoria febbricitante fabbricava in apparente disordine, ma erano le radici della memoria, i frutti celati nelle intercapedini dell’inconscio.
   Quella notte l’uomo percorse l’intera sua vita, fatta di occasioni mancate e di appuntamenti ai quali era arrivato quasi mai in sincrono, molte volte in ritardo. Rimpianti, frammenti che accompagnavano l’arco dell’esistenza. Forse pianse. Ma nel sapore di quelle ombre di sonno ebbe un momento di respiro, alleviandolo in un fragrante e composto senso di armonia.
   Si svegliò calmo e ristorato. Fregandosi le mani si accorse di avere dormito di un sonno profondo e che fuori l’alba discendeva dalle nuvole con raggi deboli e obliqui. Un ottimismo magnetico lo impregnò per intero. Era certo che adesso qualcuno gli avrebbe prestato soccorso, e gli venne voglia di cantare. Gli mancava soltanto una tazza di caffe, l’ideale per sciogliere il torpore del corpo stretto nell’angusto abitacolo.
   Un rumore da lontano, ovattato poi più intenso lo fece sobbalzare. Ecco, finalmente qualcuno che mi darà un aiuto.
   La sagoma di un’auto si delineò con chiarezza, mentre un tumulto gli agitava il cuore accelerandone i battiti in modo frenetico.
   La grossa macchina nera gli si fermò proprio accanto. I finestrini chiusi e in parte appannati non gli permisero di identificare il guidatore. Fu il tempo di una docile frenata e un individuo distinto, vestito di scuro gli si fece incontro con disinvoltura. Avanzava a passi larghi, elastici e quell’occasionale soccorritore gli apparve come un angelo disceso dal Paradiso. Chiese con tono tranquillizzante se avesse bisogno d’aiuto e l’uomo in panne spiegò di quello strano rifiuto dell’auto a proseguire la marcia. Si schermì per la propria incompetenza, ma l’entusiasmo lo porto a pensare di essere ormai fuori dal guado.
   Il soccorritore sorrise. Sciocchezze, disse, e un’ombra gli velo il viso affilato, pallido, dai contorni fini e aristocratici. Chiese di poter dare un’occhiata.
   L’uomo in panne notò le dita adunche e le nocche ossute insinuarsi simili a pinze nei meandri del motore. Pochi minuti. Poi, in maniera d’improvviso autoritaria, disse: “Provi ad accendere”.
   La macchina andò in moto. Gli parve davvero un miracolo. Accelerò con gusto, l’eccitazione di un bambino. Avrebbe voluto abbracciare il suo salvatore, un demiurgo di quei meccanismi a lui sconosciuti. Ma l’altro appariva distaccato e dava l’impressione di non avere molto in simpatia le smancerie e i ringraziamenti.
   Si rimise in macchina, salutò con fredda cortesia e riparti. Vide la potente auto nera allontanarsi fino a scomparire dalla sua vista. Rimase di nuovo solo nella campagna che si accendeva nel mattino. Quell’uomo, a pensarci bene, aveva qualcosa di misterioso. Sovrappensiero mise in moto. L’auto si mosse guadagnando la strada. Fece poche centinaia di metri. Oltre un grande incrocio, che prima era rimasto nascosto dalle curve, notò la macchina nera ferma e accostata. Non si spiegava il perché di quella sosta, eppure non c’erano dubbi: era proprio l’auto che l’aveva soccorso.
   Non fece molto caso nell’attraversare il crocevia, in genere lui tanto prudente. Una grossa autobotte lo investi in pieno. La macchina sotto la spinta dell’urto si accartocciò, poi un rogo l’avvolse per intero, proprio come una scatola di fiammiferi.
   Mori sull’istante, e non ebbe nemmeno il tempo di riflettere su come fosse stato fortunato a trovare soccorso in un posto tanto solitario.