IL ROSSO E IL NERO
anno 1, numero 1, febbraio 1992
saggi: Angeli e Demoni, pp. 34-40

lerio Caprara

Il Diavolo, probabilmente

   In Barton Fink, diretto dai fratelli Coen, l’attore John Goodman impersona il commesso viaggiatore Charlie Meadows: il più caloroso e tranquillizzante vicino di stanza che il protagonista avrebbe potuto augurarsi per il suo soggiorno nella Hollywwood-Babilonia del ’41. Se l’hotel non fa che accumulare segnali sinistri ed i mercanti non smettono di chiedergli “sconvenienti” prestazioni professionali, il buon Charlie gli fornisce in dosi massicce quel sapore di realismo quotidiano che egli reputa indispensabile per secernere arte. Ma proprio l’atticciato, schietto e amichevole personaggio si rivelerà in un crescendo sanguinario viatico per un altro Mondo, quello di un cervello squilibrato dalla perversione. L’albergo stesso si rivela organismo vivente che riproduce processi fisici e mentali di questo cervello: l’inquadratura magistrale scandita dall’avvolgersi della carrellata che lascia gli amanti sul letto per tuffarsi nel sifone del lavabo (la cui forma evoca un gigantesco orecchio) svela il carattere dell’incubo. Il vicino è l’hotel, informa il suo tempo ed il suo spazio, ne determina le inconfessabili pulsioni assassine, non potrà che sparire insieme ad esso quando l’apocalisse sarà giunta al diapason. Meadows conferma, nel raffinato reticolo di atti gratuiti dal retrogusto horror, il protagonismo di nuovi mostri di familiare quanto pervasiva identità.
   Il cinema e la letteratura americani sembrano sempre più spesso convergere in una fiction basata sullo smarrimento più pericoloso, quello che inizia e termina dentro di noi, dentro l’inquieta autocoscienza di un Occidente che ha rimosso l’altrove malefico, dentro una civiltà dissacrata in quanto vincente. Ha scritto André Glucksmann nel suo recente L’undicesimo comandamento: “Nulla di quel che è inumano ti sarà estraneo… Il Male abita l’uomo, l’immensità dello scibile, la sua storia e il suo futuribile, portandosi dentro il Male, possiamo solo prevederlo e riconoscerlo per farne il meno possibile”. Ed è significativo che l’America individui, bracchi ed attribuisca un ruolo romanzesco nelle proprie viscere ad una “pesantezza dell’essere” che l’integralismo del XX secolo tendeva e tende ad attribuire alla sua anima. Il nazismo, il comunismo e l’islamismo hanno espresso e proiettato gli stessi Satana. Antisemitismo e antiamericanismo. I1 Male sarebbe il colonialismo culturale di Washington o il cosmopolitismo della grande finanza americana. C’è la versione islamica, bolscevica e nazista dello stesso odio verso l’ebreo. C’era il “muro atlantico” di Hitler, che non doveva essere solo militare, al quale si collegava il muro di Berlino: per proteggere, con quel muro, il popolo dalla corruzione del mondo capitalistico. Così, adesso, il velo islamico vuol proteggere la purezza dell’Islam dall’Occidente.
   Infinitamente più spregiudicata (e lungimirante) dei suoi spregiatori la cultura americana ribadisce con rinnovata ed allarmata chiarezza che gli assassini sono invece fra noi. E’ certo folle chi uccide, chi scuoia, chi smembra, chi infierisce, chi oltraggia, ma di una follia omologata. E sotto il segno di questa serializzazione, di questo livellamento, di queste ibridazioni mostruose il cinema ha ormai impostato la sua più aggiornata poetica. Lo dichiara d’emblé il genio di David Lynch ma altri titoli sono altrettanto espliciti e deliranti.
   Il maniaco è l’amico, il compagno, il complice di giovanili dissipatezze (Cattive compagnie); il partner (A letto con il nemico); il vicino d’appartamento (Uno sconosciuto alla porta): l’amante di una notte (Seduzione pericolosa, Attrazione fatale), persino il padre (Pazza), un’intera comunità (Twin Peaks). La struttura di Cuore selvaggio, ancora di Lynch, permette che le paranoie più nere della notte convivano con la candida stucchevolezza delle favole, che le teste esplodano a tutto schermo e che le fate garantiscano il lieto fine. Il talento del regista si accende di bagliori inquietanti nella messa in scena di una violenza iperrealista e nell’aprire, come col bisturi, ferite in apparenza piccole e trascurabili ed in realtà infette e ricolme di pus. Deformati dallo sguardo ravvicinato della macchina da presa di Lynch, gli oggetti (“normali”) fanno parte di un mondo ostile, che non ci comprende ed, anzi, vuole annientarci. La stessa funzione è assolta dalla strategia del colore: fuoco, rosso, sangue. Le labbra di Lula e di Marietta, il rossetto col quale quest’ultima si imbratta la faccia, lo smalto con cui Lula si tinge le unghie dei piedi, il sangue che scorre nel corso della fallita rapina. Rosso, fuoco, morte. Le scarpe rosse, i cui tacchi Lula batte disperatamente insieme per tre volte come Doroty nel Mago di Oz, di ritrovarsi altrove, in una casa che non esiste. In Twin Peaks emerge il tema, sempre antropocentrico, della malattia contiguo a quello del doppio e dell’asimmetria: il corpo umano così come l’istinto che lo muove, diventano progressivamente qualcosa di non riconducibile ai dati (perfettamente controllabili) di partenza. I malvagi di Lynch fluttuano alla deriva di una storia vissuta da zombi dentro geografie urbane grigie, piovose, notturne, metalliche. Sono presenze cyborg maledette che inghiottono e si nutrono senza sosta di altre carni (umane, industriali, escrescenze prodotte su tessuti mutanti).
   Ancora più preciso il meccanismo endogenetico di Cattive compagnie. Gli amici Michael e Alex vanno insieme ad una festa ed il primo si ubriaca. Più tardi tutti e due impazzeranno in una scorribanda cittadina, con tanto di maschere, rapine ed aggressioni sadiche. Riscopriamo, il mattino dopo, Michael a casa sua, indolenzito, annebbiato e sporco di sangue. Sappiamo ben presto che Michael, il remissivo, legalitario yuppie ha massacrato di botte un odiato collega di lavoro che in ufficio voleva fargli le scarpe. “Avresti dovuto vederti come picchiavi”, dice il mefistofelico Alex: ed appare chiaro come – al contrario dell’amico che ha, comunque, agito sulla base di risentimenti concreti – egli incarni un puro modus vivendi, senza filtro di qualsivoglia motivazione se non di quella astratta di un’affermazione personale e totale. La chiave del film di Curtis Hanson sta, però, nella tremenda presa di coscienza dal faustiano Michael che prova orrore per quello che ha fatto da ubriaco e capisce, dal racconto, di non essere più solo potenzialmente uguale all’altro ma di esserne in sostanza l’alter-ego. Addirittura nel brillante e disimpegnato Nei panni di una bionda del vecchio maestro Blake Edwards, un protagonista donnaiolo impenitente viene punito – per decisione di un diavolo mellifluo ed azzimato – e, post mortem, si reincarnerà in una avvenente signorina bionda. In questo caso la malizia del Grande Corruttore presiede ad un rovesciamento catastrofico di ormoni, istinti e comportamenti nello stesso personaggio. Il concetto messo in gioco è, quindi, quello di una libertà cosi assoluta da far scatenare il Male nella sua primaria ossessività (non più legata, cioè, a motivazioni o rivendicazioni d’ordine razionale).
   Lo stesso filo di atterrita consapevolezza si dipana in autori “alti” o “bassi” della voga letteraria. Si può partire, più o meno da James Ellroy, poco più che quarantenne autore dello scioccante Dalia nera (tradotto in Italia nel 1989). Il romanzo è centrato sulla riesumazione di un vetusto fatto di cronaca, il massacro alla periferia della Los Angeles del ‘47 di un’anonima ragazzaccia illusa dal mito di Hollywood. Ellroy costruisce attorno alla scoperta (mutuata dai giornali d’epoca) del cadavere straziato e mutilato una progressione morbosa e persecutoria, una specie di macabra partouze.
   Perché Bleichert è la metà di una classica coppia di agenti, la cui seconda metà è costituita da Lee Blanchard. Si sono “conosciuti” su un ring, in un incontro di boxe organizzato a scopo preelettorale dalla polizia: si gonfiano e diventano amici. A tre: perché c’è anche una donna molto fascinosa, con cui Blanchard vive una vita di coppia senza sesso, e che sarà molto importante per Bleichert. A quattro: perché la vittima, la ragazza infelice dal passato oscuro torturata dal maniaco, finisce con l’insinuarsi nella loro esistenza. La caccia all’assassino diventa la competizione tra due uomini per il possesso di una morta e la competizione di una donna “reale” con un fantasma che dall’aldilà sembra ancora in grado di infierire ed imperversare. Scrittura debordante e pour causa eccessiva, quella di Ellroy: scandisce una storia di pugilato, poi si mimetizza nello stile del noir alla Chandler o Hammett, infine esplode in momenti di crudeltà da sala di anatomia patologica. L’orrore della verità arriva ad ondate, trascinato da una sinistra sinfonia di contaminazione: è proprio la Dalia nera (soprannome coniato per il caso di cronaca) che con i suoi vestiti (neri), i suoi veli (neri) e i suoi peccati (nerissimi) diffonde il contagio inquinando i sogni e le coscienze di tutti coloro che hanno a che fare con lei, direttamente o indirettamente. I sintomi della stessa epidemia sono ben evidenti anche ne Il grande nulla, storia di tre particolarissimi antieroi invischiati in una ragnatela criminale. Sembrano, a tutti gli effetti, demoniache presenze sia il Danny sceriffo, ossessionato dall’idea di catturare lo spietato assassino di omosessuali che gravitano nel mondo del jazz e del cinema, sia il Mal funzionario della Procura Distrettuale che ha spostato la causa del meccartismo al solo scopo di ottenere la custodia del figlio adottivo, salvato dagli orrori dell’Europa postbellica; sia il Buzz informatore della polizia che è stato guardaspalle, ruffiano e pusher al servizio del mitico miliardario Howard Hughes. Con Ellroy il Maligno non è più un simbolo bensì un personaggio; come in Molière (Don Giovanni), in Byron (Caino), in Dostoevskij (Stavroghin), può introiettare qualità squisitamente umane come la ribellione, la tentazione, la crudeltà, la finezza torturatrice dell’intelligenza. Chi avesse in animo di coltivare un banale disprezzo per un autore di consumo, dovrebbe negarsi anche la frequentazioni dei capolavori di Jim Thompson. Sospesi ovviamente tra pagina scritta e trasposizione cinematografica, i suoi thriller (Diavoli di donne, Vita da niente, Getaway, Rischiose abitudini) ci costringono puntualmente ad interrogarci “sui demoni che sonnecchiano in noi” (J.P. Deloux). Il Male è vero protagonista, quel male che sgretola, rovina, frantuma esistenze “dall’interno”: così i suoi incapaci, psicotici e perdenti protagonisti assomigliano solo a se stessi. In Thompson non esiste il concetto di moralità e l’alto tasso di morte introduce una suspense che non ha niente a che vedere con le ansie scatenate dagli ordinari canoni del giallo. La paura mangia l’anima perché il male sta in agguato in qualche sua riposta piega: è la paura che ogni essere umano possa all’improvviso trasformarsi in una belva.
   Del resto, in Vineland di Thomas Pynchon, nessun personaggio mantiene un’identità costante; non sono né quello che sono né quello che fingono di essere. Pynchon, si sa, è l’apocalittico per eccellenza dell’America moderna; i suoi “mostruosi” apologhi sono composti esclusivamente di frammenti, dell’immondizia della cultura e della società, delle rovine di un sapere antico ormai in frantumi. Nella corsa all’oscuramento totale, all’annichilimento dell’idea stessa di Bene, lo scrittore s’affida ad una sarabanda di immagini distorte, di giochi di parole, di fantasie surrealiste, infiltrazioni fantascientifiche. Pienamente in linea con una generazione di “resti spettrali” della società, appaiono Zoyd, l’ex jazzista che vive di un sussidio d’invalidità mentale; sua moglie Frenesi, che lo ha abbandonato per un agente federale arcinemico dei militanti di sinistra e degli hippies drogati; e la figlia, Prairie, che vorrebbe ritrovare la madre. Il gioco male/bene a livello politico viene disintegrato da Pynchon, proprio come Ellroy e Thompson hanno disintegrato quello fra male/bene a livello detective-story; Vineland condanna sia l’aspetto ufficiale del paese che quello, per cosi dire, trasgressivo: Cia ed Fbi sono, certo, micidiali centrali di controllo sfuggite a qualsiasi ragione collettiva ma l’opposizione è nelle mani di cretini che pensano di indottrinare il neonato leggendogli Trotzki nella culla e aggiungendo Lsd al latte in polvere. A guardar bene non la pensano diversamente i promozionatissimi minimalisti, la cui “etichetta” poetica può essere sintetizzata da questi versi di Yeats: “Le cose crollano, il centro non resiste/ La pura anarchia si scioglie sul mondo”. Come ribadisce l’escalation romanzesca del più giovane del gruppo, il californiano Bret Easton Ellis; che immergeva il protagonista dell’opera prima Meno di zero nello sfacelo dei valori che regolano i rapporti fra adolescenti, incerti non soltanto sul loro passato o sul loro futuro, ma soprattutto sul loro presente. Ellis ha portato sino in fondo la promiscuità e la profusione del male sino a creare lo yuppie cannibale di American Psycho ma già una scena di Meno di zero merita di fissare l’apogeo di una parabola. Dopo aver assistito all’agghiacciante stupro di gruppo di una dodicenne, il protagonista protesta con l’organizzatore del festino. Gli chiede soltanto: “Perché?” e quello risponde “Perché no?”; ed allora insiste: “Non credo che sia giusto” e quello risponde: “Che cosa è giusto? Se vuoi qualche cosa hai il diritto di prenderla. Se vuoi fare qualcosa hai il diritto di farla”. Ma Ellis – ed è questo che c’interessa – descrive la scena e il dialogo senza un commento, senza un giudizio morale, con lo stesso distacco con cui ha narrato le precedenti tappe di una resa inevitabile all’“indifferenza etica” terminale.
   Il traît-d’union decisivo lo ha, però, tracciato il percorso di Hannibal the Cannibal dalle pagine di Thomas Harris alla pellicola di Jonathan Demme. Il silenzio degli innocenti è dedicato a lui, al micidiale omicida detenuto in un manicomio di massima sicurezza: killer sui generis perché si ciba delle numerose vittime, il dottore dalla superiore intelligenza offre all’allieva poliziotta la chiave per risolvere l’orribile caso di Buffalo Bill, l’assassino che rapisce le sue vittime, le uccide e le scuoia. Un perfetto incastro di suspense e di perversioni che segna, sino ad ora, l’acme di questo prolungato esorcismo culturale: il genio del male, dal profondo di una cella di isolamento, riesce a controllare, determinare e capire gli eventi che si svolgono nel mondo esterno, nel “nostro” mondo di perniciosa normalità. L’intimità dei pensieri della ragazza sarà la sua preda, il suo fine: ed il baratto avverrà precisamente tra sapienza luciferina (apparentemente resa impotente dalla prigionia) e piacere della memoria (apparentemente pietrificato dal ruolo di tutore dell’ordine)… Lecter, non a caso si presenta in una situazione già scolpita, eternizzata: egli semplicemente è, quasi autogeneratosi, non c’è bisogno di spiegazioni, di ricostruzioni; la sua casa è la prigione, inferno in terra, pozzo dell’abiezione, oscuro girone dalle cui anse spuntano braccia-tentacoli di dannati che ci ricordano di esistere davvero, di non essere proiezioni simboliche. Il mostro è un’icona rovesciata e deformata: Harris avvolge le immagini in spire di parole minacciose ed ipnotiche; Demme rende plausibile, nel gioco voyeuristico degli sguardi, il complice dialogo tra il Cannibale e l’ispettrice. Risulta esclusa la tradizionale compassione, l’empatia-base di ogni lettura/visione; romanzo e film si stagliano in un’atmosfera fredda e gelatinosa. Non si respira, non c’è sole, ed è proprio questo essere fuori dal tempo a dotare l’ultimo Nemico di quella “qualità” speciale e definitiva che non lo giustifica ma lo rende spaventosamente accettabile, comprensibilmente presente nella doppiezza dell’essere e della personalità. Il diavolo, probabilmente.